domenica 28 agosto 2011

Chiesa e Massoneria: l'uomo tra verità e potere

La Massoneria ha una radice cristiana. Secondo il filosofo francese Jean Guitton, nel suo volumetto Il Cristo dilacerato, questa radice è situata là dove si trova la madre di tutte le eresie: nella gnosi.
La gnosi, che ricompare ciclicamente, consiste nel tentativo di leggere l’evento cristiano all’interno di una struttura culturale e filosofica, anziché accettare che l’evento di Cristo giudichi la ragione e quindi moduli la conoscenza in maniera diversa. Dentro le radici di quella che modernamente è apparsa come la Massoneria sta questa fermentazione radicale della gnosi. La gnosi fa pensare ad alcuni di essere illuminati, vale a dire di possedere l’interpretazione adeguata del cristianesimo. Il quale non sarebbe più un evento, ma un messaggio; dunque, come tale, essenzialmente interpretabile. La verità del cristianesimo, poi, secondo l’eresia gnostica, consiste nella verità dell’interpretazione, e su di essa si radica una progettualità di tipo moralistico, che i Catari e i Valdesi hanno continuamente riproposto nel cuore della cristianità occidentale.

Questa immagine gnostica e quindi moralistica del cristianesimo segna tutta la storia della cristianità, anche occidentale. La segna in maniera minoritaria: è una realtà che non riesce a forzare l’unitarietà della cultura e della civiltà cattolica del Medioevo, perché essendo un fenomeno di tipo sostanzialmente intellettuale e religioso, nel senso stretto della parola, non ha la forza di diventare un’alternativa alla grandiosità del processo cattolico di inculturazione della fede, di creazione di una civiltà come quella medioevale. Civiltà che è fortemente unitaria riguardo alla fede ma, allo stesso tempo, variegatissima riguardo alle realizzazioni culturali, sociali e politiche.

C'è poi un secondo passaggio: ad un certo punto, la Massoneria esce allo scoperto. Diventa un fatto esplicito, palese, polarizzante. Un fatto propulsivo nella cultura e nella società dell’Occidente. Essendo la società dell’Occidente leader della società mondiale, la Massoneria diventa un fattore .promuovente un certo tipo di scristianizzazione della vita sociale, tanto nella vecchia Europa quanto nel Nuovo Mondo. Chi ha dimorato in America Latina si rende conto agevolmente che i processi che in Europa hanno significato le grandi rivoluzioni liberali, borghesi e massoniche del diciannovesimo secolo hanno la loro conferma puntuale nell’America del Sud. Garibaldi, l’eroe dei due mondi, dimostra la capacità di questa forza nuova di assumere una responsabilità contemporaneamente nell’Occidente europeo e nell’America del Sud.

L’antropologia adeguata si rivela definitivamente nell’avvenimento di Cristo e diventa esperienza dell’uomo solo nel riconoscimento e per il riconoscimento di Cristo. L’uomo vero ci è donato, la verità profonda del nostro essere ci è donata. L’uomo rimane un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso se non incontra Gesù Cristo (questa è l’affermazione sostanziale dell’enciclica di Giovanni Paolo II Redemptor hominis al n. 10). Cristo rivela all’uomo tutta la verità su di lui. Questa è l’antropologia cristiana: nasce dall’avvenimento di Cristo che è grazia e si consegna alla libertà, perché la grazia si riferisce alla libertà, considera la libertà come la grande destinataria della sua presenza e quindi la grazia sollecita la libertà. Ci dispiace per Lutero e per tutti suoi seguaci... ma la grazia non elimina la libertà, piuttosto la promuove, esattamente come l’abbraccio del padre e della madre, anche naturalmente, non spengono la personalità dei figli, ma la sollecitano a diventare responsabile. Questa è l’antropologia cristiana, dunque un’antropologia che non ha bisogno di negare il male, che non ha bisogno di negare il bene, che non ha bisogno di sottolineare l’aspetto pervasivo delle strutture in cui l’uomo vive la sua vita e che certamente lo condizionano, ma che vede l’uomo emergere nel suo essere figlio di Dio, perché questa affiliazione da Dio è rivelata e resa esperienza nell’avvenimento di Cristo riconosciuto e per l’effusione del Suo Spirito. Abbiamo dunque visto per secoli, in atto dentro la tradizione cattolica dell’Occidente, la realizzazione di questa antropologia adeguata, che non è una santificazione del Medioevo – non c’è niente nella storia che possa essere santificato e reso perfetto – ma è certamente una grande esperienza di presenza missionaria che ha determinato una grande capacità creativa dei singoli, delle persone o dei gruppi.

La Massoneria riprende o si assume una responsabilità enorme, dal punto di vista culturale e sociale, quando muta radicalmente lo scenario dell’antropologia; quando all’antropologia della verità sostituisce l’antropologia del potere. L’antropologia della verità trova il suo compimento nella rivelazione cristiana e il suo ambito di educazione e di esperienza nell’appartenenza al popolo di Dio che è la Chiesa, fonte della maturazione delle singole personalità: infatti la Chiesa ha come obiettivo supremo non l’allargamento della sua struttura istituzionale ma la crescita del popolo cristiano, “sacramenta propter homines” dicevano i nostri antichi maestri scolastici: nella loro grevità ontologica dicevano che la Chiesa è per l’educazione dell’uomo, perché l’uomo poi, maturato nella sua identità cristiana, si assuma la sua precisa responsabilità di essere missionario nel mondo, di fronte a Cristo e di fronte agli uomini. Questo è anche il grande grido che viene dalla Novo millennium ineunte di Giovanni Paolo Il.

All’antropologia della persona, che è persona perché appartiene a Cristo nel Suo popolo, si sostituisce l'individuo che ha già valore in sé per sé. Il cuore del massone è nella modernità e la modernità è la costruzione di un mondo senza Dio. Per costruire un mondo senza Dio si può ancora parlare di Dio, si deve anche parlare di Dio, perché sarebbe assolutamente spropositato, indebito, strategicamente scorretto parlarne subito male o dire che non esiste. Ma evidentemente sul piano del diritto, sul piano teorico, sul piano dell’impostazione filosofica e antropologica, l’uomo è concepito come alternativa a Dio. La Massoneria si radica in questo nuovo ambiente nel quale matura in sinergia con i filoni razionalisti e illuministi, che saranno più rigorosamente anti-deisti e anti-cattolici, e dove non c’è posto per una concezione religiosa della vita che radichi l’uomo nella domanda di senso, di verità, di bellezza e di giustizia, perché questo tipo di domande sono sostanzialmente alienanti.

La Massoneria è dunque all’interno del laicismo moderno e contemporaneo e ne condivide con il laicismo moderno la grande preoccupazione di costruire un mondo come se Dio non esistesse; magari non formalmente contro Dio, ma ,come se Dio non esistesse. Credo che siano questi gli elementi del confronto. Credo che tutti noi abbiamo il diritto di essere quello che siamo, di scegliere le nostre opzioni, di essere coerenti con i nostri principi, di realizzare nella vita sociale una espressione anche pubblica delle nostre convinzioni, ma è necessario che sappiamo la posta in gioco. La posta in gioco è un’alternativa sul piano dell’antropologia: o c’è l’uomo della verità o c’è l’uomo del potere, dal punto di vista della, definizione ultima.

RICORDA

«Proprio considerando tutti questi elementi la Dichiarazione della S. Congregazione afferma che la Iscrizione alle associazioni massoniche “rimane proibita dalla Chiesa” e i fedeli che vi si iscrivono “sono in stato di peccato grave e non possono accedere alla Santa Comunione”. Con questa ultima espressione, la S. Congregazione indica ai fedeli che tale iscrizione costituisce obiettivamente un peccato grave e, precisando che gli aderenti a una associazione massonica non possono accedere alla Santa Comunione, essa vuole illuminare la coscienza dei fedeli su di una grave conseguenza che essi devono trarre dalla loro adesione a una loggia massonica. La S. Congregazione dichiara infine che “non compete alle autorità ecclesiastiche locali di pronunciarsi sulla natura delle associazioni massoniche, con un giudizio che implichi deroga a quanto sopra stabilito”». (Inconciliabilità tra fede cristiana e massoneria. Riflessioni a un anno dalla Dichiarazione della Congregazione per la Dottrina della Fede ,1985).

mons.LUIGI NEGRI

sabato 30 luglio 2011

Scontri nelle masserie fra briganti e galantuomini: UN'ALTRA STORIA D'ITALIA

Le masserie e i boschi di Martina (TA) conservano segni e ricordi di antiche violenze: fortificazioni, grotte e caverne sperdute sono stati presidi e rifugi nella lotta tra galantuomini e briganti. Il più delle volte, però, le divisioni all'interno del ceto dei galantuomini passavano anche fra i briganti, utilizzati nella lotta delle fazioni locali
e a volte, con un disegno politico di più ampia portata, nella lotta delle cricche locali contro il potere centrale. Da questo punto di vista il personaggio più importante che si sia aggirato nei nostri boschi e tra le nostre masserie è senza dubbio Ciro Annichiarico, il brigante che nel primo ventennio dell'Ottocento ha fatto il bello e il cattivo tempo in quel di Taranto, Martina, Ostuni e Francavilla.
Don Ciro Annichiarico, chierico di Grottaglie, si diede alla macchia perché
accusato dell'assassinio di don Giuseppe Motolese, avvenuto il 16 luglio 1803.
Anche don Giuseppe era un chierico, ma proveniva da una delle famiglie più
ricche di Grottaglie, quella dei Motolese. Fra i due giovani chierici il motivo della contesa era stato una bella donna, Antonia Zaccaria, fidanzata di don Ciro. I boschi da allora divennero il rifugio di don Ciro e della sua banda. Egli ha lasciato persino il suo nome ad un monte, presso la masseria del Duca, vicino al monte Trazzonara: il monte di Papa Ciro. I galantuomini utilizzarono il brigante Ciro Annichiarico finché fece loro comodo, gli assicurarono la loro protezione servendosene per le loro vendette, per illeciti arricchimenti e nella lotta contro l'autorità del Regno di Napoli. Quando, dopo la Restaurazione, i Borboni vollero
ripristinare il loro potere, fu inviato in Puglia, per reprimere il brigantaggio, il generale Riccardo Church. Già alla fine del 1817 la sorte di Ciro Annichiarico era segnata perché non era riuscito a stabilire una salda alleanza con i Vardarelli, che con la loro banda di briganti controllavano la Puglia settentrionale.
E soprattutto perché il potere centrale si proponeva di spezzare la catena di fratellanza tra le persone di un certo grado e posizione e i capi birbanti. Venuta meno la protezione della borghesia agraria, don Ciro poteva ancora illudersi di essere il capo della setta dei Decisi e di andare a piantare l'albero della libertà.
Ormai doveva soltanto scappare e nella fuga compie, proprio a Martina, una delle sue ultime scorrerie: nel gennaio 1818 attacca la masseria Piccoli, ove sequestra e ricatta il proprietario Pietro Chiarelli, obbligandolo a versare la somma di tremiladucati. Dopo la sconfitta subita a San Marzano, è ancora in una masseria, la masseria di Scasserba, che Ciro Annichiarico oppone l'ultima resistenza prima di essere catturato il 7 febbraio 1818. Doveva incutere un certo timore, per tutto quello che avrebbe potuto rivelare, tanto che, solo un giorno dopo la cattura, venne processato e fucilato. La testa staccata dal busto, cotta ed essiccata nel
forno, fu esposta per mesi, in una gabbia di ferro, alla porta di Grottaglie. Più breve e stata l'avventura dell'altro grande brigante, il sergente Romano, di Gioia del Colle. Dopo l'Unita di Italia, Pasquale Domenico Romano, figlio di un capraio,un sergente che aveva imparato a leggere e scrivere nell'esercito borbonico, nel gennaio 1861 era stato rinviato a Gioia senza arte ne parte. Qui al primo costituirsi dei comitati borbonici fu designato comandante generale delle squadre insorgenti di Gioia e dei Comuni limitrofi. La sua motivazione politica appare,
quindi, più immediata e meglio organizzata nel quadro della reazione borbonica contro l'Unità d'Italia, contro i Savoia, i Piemontesi e i Liberali. Anch'egli attuò il tentativo, maturato durante il convegno nel bosco delle Pianelle, di allargare le sue alleanze: invio emissari a Carmine Crocco che, dai boschi di Monticchio, con una banda di circa duemila uomini, terrorizzava il Melfese, per promuovere insieme l'insurrezione controrivoluzionaria delle popolazioni meridionali, onde
ripristinare il caduto regime.
Come era accaduto a Ciro Annichiarico, anche il sergente Romano rimase
isolato e la sua banda fu assalita dalla Fanteria e dalla Guardia Nazionale, presso la masseria Monaci, il 1 dicembre 1862. La banda fu sgomitata e si salvarono i briganti che riuscirono a fuggire. Tra questi il cegliese Francesco Monaco, reclutato dai briganti a Specchia Tarantina il 29 settembre 1862. Tra le masserie di Martina, come dichiarò poi Domenica Rosa Martinelli di Ceglie al giudice istruttore, il Monaco con la sua banda, visse con lei la sua storia d'amore. Trovo ospitalità a Pilozzo, Spezzatarallo, Monte del Duca e Pilano, finché non fu ucciso
dagli stessi suoi compagni. Il sergente Romano, invece, finì ucciso a sciabolate dai soldati piemontesi nei boschi di Vallata, presso Gioia del Colle, il 5 gennaio 1863. Il brigantaggio era stato sconfitto e, negli anni successivi, ci fu una repressione ancora più dura e indiscriminata. Il fenomeno nella nostra zona aveva assunto grandi dimensioni, numerosissimi i martinesi che si erano dati al brigantaggio: Francesco Carlo, Agostino Paolo Conserva, Francesco Cito, Giuseppe Conforti, Domenico di Monna, Lorenzo Fragnelli, Vito Leonardo Lucarelli, Carlo Miola, Giuseppe e Ignazio Semeraro, Vincenzo Tagliente, Angelo Vinci e Benedetto Maggi. Il brigantaggio è parte integrante della storia dell'Italia meridionale e, come tale, va studiato e approfondito senza misteri e senza infingimenti, penetrandone la vera portata. Che non fu quella di guerriglia sanguinaria fine a se stessa, ma di un movimento generato da profonde ragioni
sociali e che trovo la sua spinta principale nell'ansia di conquista di migliori condizioni di vita.
Se successivamente il brigantaggio continuò ad esistere, esso fu considerato
come un fenomeno di delinquenza comune, di cui dovettero occuparsi i magistrati e non gli storici e tanto meno i politici. Ma le profonde ragioni sociali, che avevano animato il brigantaggio, non ebbero una risposta adeguata e il malessere che permaneva nelle nostre campagne ebbe la dura risposta dello Stato. All'epoca dei nostri nonni avvenne a Martina una rapina che da tutti fu considerata un atto di brigantaggio. Fu assaltata e saccheggiata la masseria San Paolo del più ricco possidente di Martina, don Ciccillo Basile, detto Masella, dal nome di una delle
sue tante proprietà. L'episodio e ricordato da molti, anche oggi, con i toni favolosi della storia di briganti: all'imbrunire del 23 settembre 1922, mentre la famiglia padronale recitava il rosario, apparvero i briganti, senza che nessun cane ne avesse segnalato la presenza. Il padrone don Ciccillo fu catturato nella cappella, colpito a bastonate, legato e chiuso in un sacco. La stessa sorte tocco ai servitori fedeli, che avevano tentato di resistere: Cosimo Brigida, Giovanni Liuzzi, Nicola Caramia e Paolo Ferroforte. I briganti erano una quindicina, tra essi vi era anche
una donna travestita da monaca, tutti con la faccia tingiiute. Diedero anche una randellata al guardiano. La signora, donna Nina Lenti, vista l'inutilità di ogni resistenza, implorò i briganti dicendo: prendete tutto quello che volete, basta che non toccate la nutrice e il bambino. Il bambino era il giovane erede don Alfonso Basile. I briganti vollero che fosse imbandita la tavola e si fecero servire dalla signora e da donna Rosa Basile. Per allietare il banchetto si misero persino a strimpellare il pianoforte. Prima dell'alba lasciarono la masseria con il bottino di
argenteria, gioielli e danaro.
Don Ciccillo riuscì a liberarli per primo e diede l'allarme in città. Fu subito arrestato il guardiano Pietro Massafra, accusato di aver segnalato la via libera ai banditi con la luce di una candela e di aver avvelenato il cane di guardia, trovato morto alcuni giorni dopo nel bosco cisure longhe della masseria Cavaliere. Il guardiano, a solo trentun'anni, morì in carcere per le bastonate ricevute ancor prima del processo. La moglie, convinta della sua innocenza, inutilmente aveva venduto persino a fazzatore per pagare gli avvocati. Pietro Massafra fino alla fine si dichiarò innocente, ma quando nella camera ardente il suo cadavere finì
bruciato da un cero che si era rovesciato, sembrò raggiunto dalla maledizione. Gli altri banditi furono arrestati dopo qualche mese, grazie alle soffiate raccolte nell'ambiente della malavita locale, da Emanuele Primavera, un caporione fascista. Ancora una volta un regime forte, come era quello fascista, con la repressione più dura e senza andare tanto per il sottile, ristabilì l'ordine e trovò i colpevoli da punire. Il processo iniziò a Taranto il 18 ottobre 1924 e già il 12 novembre la Corte d'Assise era in grado di pronunciare la sentenza di condanna per rapina qualificata e lesioni per 18 imputati, con pene che andavano da 23 a 15 anni di carcere. Tra essi, oltre al Massafra già defunto, furono condannati due altri martinesi: Antonio Cannarile, detto u russìne, un contadino povero, e Pietro Semeraro, detto mustazze, un fruttivendolo. Gli altri condannati furono: Angelo Rotunno di Ostuni, ritenuto il capo, Oronzo Di Giuseppe, Tommaso Sarcinella, Angelo Rodio, Maria Grassi e Isabella Calella di Locorotondo, Vito Luigi Mancarella e Vito Sbano di San Vito dei Normanni, Giuseppe Longo di Mesagne, Salvatore Zito di Taranto, Stefano Indolfo, Filippo Giancola, Nicola Semeraro e Leonardo D'Errico di Cisternino e Giulio Bergametto di Latiano. I ricchi galantuomini avevano ritrovato il regime d'ordine pronto a difendere prestigio offeso e ricchezze minacciate, mentre le profonde ragioni sociali, che erano state all'origine del brigantaggio e dei delitti contro la proprietà e la persona, non
avevano ancora trovato i loro teorici meridionalisti.
Infatti le masse popolari, incapaci di espressione, come diceva Benedetto Croce, non facevano Storia.


Bibliografia
A. LUCARELLI, Il brigantaggio politico del Mezzogiorno d'Italia (1815-1818),
Bari, 1942.
A. LUCARELLI, Il brigantaggio politico delle Puglie dopo il 1860 - Il
sergente Romano, Bari, 1946.
V. CARELLA, Il brigantaggio politico nel brindisino dopo l'Unità, Fasano, 1974.
Ringraziamenti
Siamo in debito con Ottavio Guida, direttore dell'Archivio di Stato di Taranto, perl'assistenza fornitaci, durante la consultazione del Registro dei Reati della Corte d'Assise di Taranto.

(FRANCESCO SEMERARO)

giovedì 14 luglio 2011

Garibaldi e la massoneria

È noto a tutti, fin dai banchi di scuola, che non si può «parlare male di Garibaldi»: il suo
“coraggio” e il “purissimo idealismo” ne fanno un eroe dell’apologetica risorgimentalista.
Ma analizzando con maggiore accuratezza la vita del presunto eroe, si possono mettere in
luce molti aspetti oscuri o poco noti del suo passato. Di certo il nizzardo non brillava per
coerenza di idee se Mazzini lo definì «una vera canna al vento» e Denis Mack Smith lo valutò
«rozzo e incolto».
Indagando meglio si scopre, ad esempio, che la sua lotta contro l’oppressore non comprende
la tappa in Uruguay dove preferì combattere dalla parte degli inglesi, per garantirne il monopolio
commerciale sul Rio della Plata e contrastare così l’egemonia spagnola, nazione troppo
cattolica per il proverbiale antipapismo garibaldino e soprattutto per il suo iniziale avvicinamento
alla Massoneria d’oltreoceano. O ancora che fu artefice di un meschino traffico di schiavi al suo
ritorno dal Perù nel 1852. Garibaldi «m’ha sempre portato i Chinesi nel numero imbarcati e tutti
grassi e in buona salute, perché li trattava come uomini e non come bestie», scriveva con
ammirazione e una punta di ironia l’armatore torinese Pietro Denegri.
Nel 1835 a Rio de Janeiro, Garibaldi strinse amicizia con Livio Zambeccari, esponente di
spicco della massoneria e segretario del presidente del Rio Grande. Ma fu a Montevideo nel
1844 che indossò il primo “grembiulino” ed “ebbe la luce” massonica. Aveva trentasette anni, e
la loggia era L’Asil de la Vertud, una loggia irregolare, emanazione della massoneria brasiliana,
non riconosciuta dalle principali obbedienze massoniche internazionali, quali erano la Gran
Loggia d’Inghilterra e il Grande Oriente di Francia. Sempre nel corso del 1844 regolarizzò la
sua posizione presso la loggia Les Amis de la Patrie di Montevideo posta all’obbedienza del
grande Oriente di Parigi. La sua affiliazione comparve successivamente anche nella loggia
Tomp Kins, a Stapleton nello stato di New York.
La carriera massonica di Garibaldi culminò nel 33° grado del rito Scozzese ricevuto a Torino
il 17 marzo 1862, nella elezione a Gran Maestro del 21 maggio 1864 e nella suprema carica di
Gran Hierofante del Rito Egiziano di Memphis-Misraim nel 1881.[1] Garibaldi, inoltre si
interessò anche di spiritismo e occultismo.
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Garibaldi e la massoneria
Scritto da Ettore
Domenica 03 Aprile 2011 16:59
Ma prima di passare a descrivere più nel dettaglio l’influenza della massoneria sul nizzardo è
opportuno ricordare che tutti i Riti massonici, sebbene divisi al loro interno, fin dalla Rivoluzione
francese perseguivano un disegno finale metapolitico, che aveva come fine ultimo la distruzione
del Cristianesimo e il ritorno dell’umanità ad un’età precristiana, pagana, gnostica.
Il potere della massoneria si rafforzò con Napoleone, con cui l’attacco alla Chiesa di Roma
divenne sempre più palese fino all’annessione del 10 giugno 1808 dello Stato pontificio
all’Impero francese.
Il convegno massonico di Strasburgo del 1847 organizzò i moti rivoluzionari dell’anno
successivo che si propagarono contemporaneamente a Parigi, Vienna, Berlino, Milano, Roma e
Napoli.
La più nota ma, al contempo, impenetrabile società segreta dell’Ottocento fu la Carboneria,
emanazione della loggia dei Filaleti, cioè Amici della libertà, francesi. Organizzata in Vendite,
operava in stretto contatto col Rito Scozzese, era diretta da un vertice chiamato Alta Vendita
composta a livello internazionale da quaranta membri. Molto diffuse in Piemonte e nell’Italia
settentrionale, la prima Vendita meridionale fu stabilita a Capua, nel 1809.
Mazzini fu iniziato alla Carboneria fra il 1827 e il 1829. I Carbonari appartenevano agli
Illuminati di Baviera e vi apparteneva anche Mazzini che – tra l’altro – credeva fermamente
nella reincarnazione. Conobbe la Blavatsky, fondatrice della Società Teosofica, e fu molto
amico di John Yarker, Gran Jerofante di Memphis e Misraim.
Carboneria e Alta Vendita entrarono in gioco per l’unificazione dell’Italia: alla prima spettava il
compito di rovesciare il Trono, alla seconda quello di assalire il Papa e disgregare il clero. Il loro
braccio armato era l’orda garibaldina. Ma, per portare a termine la sua missione, Garibaldi
aveva bisogno di un protettore potente: la onnipresente massoneria britannica. Perfino lo
storico ufficiale della Massoneria italiana Aldo Alessandro Mola scrive «la spedizione dei Mille si
svolse dall’inizio alla fine sotto tutela britannica: o, se si preferisce, della Massoneria inglese».
E mentre il Pisacane – anche lui massone - falliva l’azione di Sapri, Garibaldi tramava
nell’ombra in Inghilterra nell’areopago della loggia Philadelphes contro il Regno delle Due
Sicilie. Nella loggia londinese si raccoglievano infatti i più importanti esponenti
dell’internazionalismo democratico e socialista, tutti propensi a collocare la massoneria su
posizioni fortemente antipapiste.
Presi i necessari accordi con la massoneria inglese, il nizzardo partì da Liverpool alla volta del
Nuovo mondo dove frequentò e batté cassa presso le logge massoniche di New York.
La sconfitta dei Borbone fu comprata a peso d’oro. Oro massonico che corruppe le tasche dei
generali quasi quanto la propaganda ne aveva corrotto la mente. Lo studioso De Vita ha
accuratamente ricostruito la provenienza di questo tesoro attraverso una documentata ricerca
negli archivi delle logge massoniche scozzesi di Edimburgo.
A Garibaldi furono quindi fatti pervenire, per l’organizzazione della spedizione, tre milioni di
franchi francesi, tutti convertiti in piastre d’oro turche per occultarne la provenienza e per
favorirne il cambio in tutto il bacino del Mediterraneo. Non è facile valutare il valore finanziario di
una somma così ingente, ma si tratta senza dubbio di milioni di dollari odierni. Alla colletta
contribuirono, oltre ai fratelli inglesi e americani, anche quelli canadesi. La massoneria mal
sopportava quei sovrani di Napoli: troppo cattolici e ben difesi, da un lato dall’ “acqua santa” del
Papa, dall’altro da quella salata e ricca di traffici del Mediterraneo; ma soprattutto bruciava loro
ancora la persecuzione ordinata, tra il 1825 e il 1832, contro le logge massoniche siciliane.
L’appartenenza massonica di Garibaldi contribuì quindi, a finanziare la conquista del Sud.
Come è dimostrato dallo stesso Garibaldi che, nel ringraziare i propri fratelli di Palermo per il
conferimento dell’altissimo grado assegnatogli in seno alla Massoneria, tenne a precisare, nella
lettera inviata il 20 marzo 1862, che assumeva «di gran cuore il Supremo Ufficio» perché, da
una parte, conferito dal libero voto di uomini liberi, e dall’altra per «l’appoggio che essi diedero
da Marsala al Volturno, nella grande opera dello affrancamento delle province meridionali»…
Ai Maestri Massoni dell’Italia, Garibaldi fece notare inoltre l’importanza che ogni Massone
cooperasse affinché Roma divenisse, oltre che italiana, la capitale di una «grande e possente
Nazione».
Tutti i fratelli, perciò, dovevano tenersi pronti ad accorrere «sotto quella bandiera per la quale
fu sparso tanto sangue italiano».
E tra i Mille che si mossero dallo scoglio di Quarto o tra i loro sostenitori più o meno ufficiali, ci
furono molti massoni: a iniziare da Bixio (della Trionfo ligure, tessera numero 105), a Crispi,
compreso Cavour, primo ministro del governo sardo, e lord Palmerston, ministro di Sua Maestà
britannica.
Lo studioso che più di ogni altro ha sottolineato l’importanza di questa «setta» - come da lui
stesso più volte è definita – nella dissoluzione del Regno della Due Sicilie è stato Giacinto DÈ
Sivo: la «setta che da ottant’anni va minando i troni e gli altari, guadagnava a’ nostri tempi un
re, nato re, nato cristiano e cattolico» e ne ha fatto sua «vittima e strumento», inducendolo a
spargere la corruzione nel Regno delle Sicilie, a fornire oro e legittimazione all’orda garibaldina,
a colpire egli stesso alle spalle il monarca delle Sicilie, quando questi era ormai sul punto di
fermare l’invasione .[2]
Continua il de’ Sivo «il Piemonte co’ suoi ambasciatori sparse tra noi il veleno delle
sette;corruppe con oro e promesse i duci e i ministri napoletani; metteva in armi sulle genovesi
terre un capitano di ventura, al quale con bugiarde mistificazioni aveva preparato immeritata
rinomanza, gli dava oro, navi e bandiere, gli dava seguaci d’ogni nazione e d’ogni linguaggio, e
il lanciava famelico e sitibondo sulle nostre terre felici» . [3]
Questo dunque, il complotto che ha corrotto il Regno: inglesi e piemontesi corruppero e
comprarono con oro massonico gran parte del governo di Francesco II, compreso il primo
ministro Liborio Romano e con lui, larga parte degli stati maggiori militari e della burocrazia.
Il dÈ Sivo avverte e mette in guardia contro la minaccia dei settari, svelandone il disegno
ultimo di attacco alla Chiesa «la guerra che oggi si fa, non è al Papa come Re di Roma
solamente, non si limita solo al potere temporale, non è contro la dominazione pontificia che si
scaglia la bava velenosa dei settari: è anche direttamente contro i principi della religione, che
vorrebbe farsi sostituire dal vantato razionalismo» . [4]
E, a distanza di più di un secolo, non possiamo che riconoscere la perspicacia dello storico di
Maddaloni che nutriva la consapevolezza del carattere intrinsecamente rivoluzionario e
anticristiano dell’aggressione al Regno delle Due Sicilie. Un episodio del ben più ampio scontro
fra religione e ateismo.
La setta iniziò dalla soppressione degli ordini religiosi per passare all’incameramento dei beni
ecclesiastici, sempre in nome della libertà e della costituzione. Poi la massoneria scatenò in
Italia una vera e propria guerra alla Chiesa cattolica, utilizzando i Savoia e i liberali, come
avanguardia della rivoluzione.
Si dichiararono soppresse «tutte le corporazioni e gli stabilimenti di qualsivoglia genere degli
Ordini monastici e delle corporazioni regolari o secolari esistenti» e si impose a tutti i religiosi di
lasciare i conventi. A distanza di un mese, seguì la soppressione degli ordini religiosi e la
confisca dei beni.
La persecuzione anticattolica fece intascare all’élite illuminata e liberale circa un milione di
ettari di terra e migliaia di edifici, tra conventi e romitori. La popolazione perse gli usi civici per
secoli garantiti dalla Chiesa e insorse ovunque guadagnandosi l’appellativo di briganti. I decreti
del 18 ottobre 1860, sulla abolizione dei privilegi del clero[5] , e quelli del 17 febbraio 1861, che
abrogarono il concordato del 1818 fra il Regno delle Due Sicilie e la Santa Sede, comportarono
la laicizzazione delle opere ecclesiastiche, la soppressione di numerosi ordini religiosi oltre
all’impedimento di celebrare messe e alla chiusura di alcuni luoghi di culto
[6]
e spinsero all’opposizione anche quella parte del clero ancora indecisa nei confronti della
rivoluzione. Numerosi frati e sacerdoti, militarono nelle fila della reazione, i vescovi
incoraggiavano gli insorti con le loro pastorali e rinnovavano le scomuniche della Santa Sede
che definiva sacrilego il Governo italiano. Si fronteggiarono dunque, come già era stato nel
1799 e durante le invasioni napoleoniche, due idee del mondo, l’una che trovava nei simboli
sacri della religione e della chiesa la sua bandiera, l’altra che riecheggiava e diffondeva le idee
propugnate dalla massoneria, quella “setta” che, per dirla ancora una volta con il de’ Sivo, tanto
ha inciso nelle vicende del Risorgimento italiano.
D’altra parte la stessa massoneria non nasconde, anzi rivendica orgogliosamente l’apporto al
Risorgimento. Il Gran Maestro Armando Corona, in un Convegno dell’88 sul tema La
liberazione d’Italia nell’opera della massoneria, così conclude «la liberazione d’Italia – opera
eminentemente massonica – fu sorretta, in ogni suo passaggio fondamentale, dalle iniziative
delle Comunioni massoniche d’oltralpe». La massoneria «fu il vero ispiratore e motore del
Risorgimento» [7]. Scopo della sua missione era quello di distruggere la Chiesa cattolica e
sostituirla con quella massonica guidata da Londra.
Suo artefice era Garibaldi, che aveva speso la sua vita a scristianizzare i popoli, in particolare
quello italiano. Definiva il papa Pio IX «un metro cubo di letame»[8] , lo riteneva «acerrimo
nemico dell’Italia e dell’unità», lo considerava «la più nociva di tutte le creature, perché egli, più
di nessun altro, è un ostacolo al progresso umano, alla fratellanza degli uomini e dei popoli».
Nel 1862 si tenne la prima Costituente massonica italiana: 26 le Logge i cui delegati
nominarono Garibaldi, insignito da Crispi dei gradi scozzesi dal 4° al 33°, Primo Massone
d’Italia.
Il Grande Oriente Italiano, dunque, inizialmente dominato da esponenti vicini a Cavour, preferì
affidare la carica di Gran maestro a Costantino Nigra e conferire a Garibaldi soltanto un titolo
onorifico, come quello di Primo Massone d’Italia, gratificandolo di una medaglia commemorativa
di oro massiccio.
Nel cuore massonico del Risorgimento si facevano quindi strada due sentimenti: quello
cavouriano, decisamente elitario e dinastico, e quello democratico, più popolare. Iniziava una
dura lotta per assicurarsi la guida della famiglia massonica. Garibaldi divenne immediatamente
il candidato sostenuto dai democratici, ma quando Costantino Nigra rassegnò le dimissioni da
Gran maestro e un’assemblea straordinaria fu chiamata a eleggere il suo successore, il
prescelto risultò Filippo Cordova, già ministro di Cavour, che prevalse su Garibaldi con 15 voti
contro 13.
Per l’anno successivo, il ’63, i “figli della vedova” [9] fissarono l’appuntamento «a Roma
liberata» ma non riuscirono a portarsi oltre Firenze.
Dopo la nomina a sovrano Gran Commendatore del Gran Consiglio, conferita nel 1863,
l’assemblea dei liberi muratori italiani riunitasi a Firenze nel maggio del 1864 e comprendente
ormai ben 72 logge, elesse Garibaldi al primo scrutinio con 45 voti (fave) su 50, Gran Maestro
dei liberi muratori comprendenti i due riti, scozzese ed italiano. La speranza era quella di
organizzare tutte le frange della Massoneria italiana in una obbedienza universale, con una
aggregazione, come lui stesso scrisse, «in una sola, di tutte le società esistenti, che tendono al
miglioramento morale e materiale della famiglia italiana».
La nomina a Gran Maestro rappresentò un momento fondamentale nella storia della
massoneria italiana, nelle logge infatti, iniziò a scatenarsi sempre più intensamente la bufera
dell’anticlericalismo radicale di cui Garibaldi era il principale e insuperato esponente.
Bisognava conquistare Roma: chi voleva farlo era amico dei massoni, chi temporeggiava,
nemico. Il Papato era l’arcinemico da combattere e abbattere.
Con un linguaggio che fondeva insieme misticismo messianico e positivismo razionalistico,
Garibaldi intendeva condurre i fratelli tre puntini ad una «religione del vero». Così farneticava da
Torino fin dal ‘61 «incombe ai veri sacerdoti di Cristo una missione sublime»: liberare i popoli e
finalmente un giorno la patria riconoscente «inciderà i loro nomi tra gli eroici figli che la
redensero»[10] .
Il 18 marzo del ‘67 da Firenze, Garibaldi attaccava «non abbiamo ancora Patria, perché non
abbiamo Roma, chi in massoneria potrà contenderci una Patria, una Roma morale, una Roma
massonica? Io sono del parere che l’unità massonica trarrà a sé l’unità politica d’Italia».
L’obiettivo era chiaro: l’iniziativa militare che doveva condurre a Roma, necessitava l’armonia
interna e l’abbandono di beghe e dispute su rituali e tra Obbedienze. Tutti uniti in vista di un
obiettivo preciso: la breccia di Porta Pia.
L’antiteismo garibaldino lo spinse al punto di affermare «Se sorgesse una società del
demonio, che combattesse dispotismo e preti, mi arruolerei nelle sue file».
Garibaldi, nel giugno 1867, pur conservando la carica di Gran maestro del Consiglio
scozzesista palermitano, accettò anche la nomina a Gran maestro onorario a vita del Grande
Oriente d’Italia che gli venne conferita dalla Costituente massonica di Napoli.
Il legame con l’istituzione liberomuratoria era ormai saldissimo. Non valsero a incrinarlo
neppure le divergenze emerse in occasione dell’Anticoncilio di Napoli del 1869, a cui Garibaldi
aderì e dal quale invece la Massoneria, rimase sostanzialmente estranea.
Nell’autunno del ‘67 il vessillo della Vedova sventolò sull’orda garibaldina diretta a Roma.
L’azione dei volontari avrebbe dovuto avere man forte da una insurrezione preparata dai
cosiddetti patrioti romani. Ma la partecipazione popolare fu scarsa e il 3 novembre 1867, le
truppe francesi – da poco sbarcate a Civitavecchia – attaccarono e sconfissero i garibaldini
nella gloriosa battaglia di Mentana.
Fermato a Sinalunga, per paura che potesse realizzare un colpo di mano sulla frontiera
pontificia, Garibaldi si ritirò a Caprera dove si diede alla scrittura.
Nel romanzo autobiografico il Clelia ovvero il governo dei preti, il Primo Massone divenuto
ormai il Solitario di Caprera, come si autodefinì, descrisse giovani patrioti fanatici, preti
demoniaci e licenziosi in pagine trasudanti anticlericalismo e antiteismo.
Dall’isola, nel luglio del 1868, inviò al Supremo Consiglio della massoneria una missiva per
comunicare la sua rinuncia a qualunque titolo o grado a lui attribuito, rimanendo però legato alla
fratellanza laica, considerata fattore trainante della Massoneria. I componenti del Supremo
Organo decisero di trasmettere a Garibaldi un messaggio per dissuaderlo dalla rinuncia ma lui
si chiuse nel silenzio e non diede neanche una risposta alla missiva del Supremo Consiglio che,
in sua vece, elevò alla carica di Gran Maestro del rito scozzese antico ed accettato il fratello
Federico Campanella.
In una lettera del 1869 alla loggia Il vero progresso sociale di Genova, Garibaldi – nonostante
la rinuncia a cariche massoniche – continuò comunque a sostenere che «la massoneria che
porta l’impronta dell’Alleanza Democratica Universale e della Fratellanza umana ha per
missione di combattere il dispotismo ed il prete, entrambi rappresentanti dell’oscurantismo, del
servaggio e della miseria».
Era ormai però lontano dalle dispute interne alla fratellanza. Per questo non partecipò
neppure all’Assemblea costituente massonica riunita nella capitale Firenze il 31 maggio 1869
per ratificare la fusione del Gran Consiglio simbolico di Milano con il Grande Oriente d’Italia.
Unione sancita con la firma di un documento sottoscritto nel maggio del precedente anno.
Accettò, invece, nel 1872 la carica di Gran Maestro onorario a vita del grande Oriente d’Italia.
Secondo Marcel Valmy, autore dell’ opera I Massoni edita da Contini nel 1991, Garibaldi fu
anche il primo Gran Maestro della loggia Odre du rite Mamphis Misrain, un sistema a 90 gradi
gerarchici legato a tradizioni dell’antico Egitto.
Sul versante del razionalismo positivistico di stampo massonico, Garibaldi iniziò anche una
battaglia volta a diffondere in Italia l’idea e la pratica della cremazione. Tutto il movimento
pro-cremazione fu infatti direttamente promosso dalle logge massoniche e ebbe fra i suoi
maggiori dirigenti molte figure di primo piano della Massoneria. Senza l’appoggio dei vertici
della Massoneria la cremazione non avrebbe avuto lo sviluppo che invece ebbe nel ventennio
tra il 1875 e il 1895.
La nascita della cremazione in Italia non fu solo determinata da un impegno individuale di
alcuni singoli massoni, ma fu la conseguenza di un intervento ufficiale, tanto dal punto di vista
economico che organizzativo, delle logge. Lo stretto vincolo cremazione-massoneria fu ben
chiaro alla Chiesa che infatti si oppose strenuamente allo sviluppo di questa pratica.
Tre erano gli intenti massonici in questa battaglia: il primo era quello di laicizzare – o meglio
scristianizzare - oltre la società civile anche la scienza, cercando di privare la realtà naturale di
ogni riferimento metafisico. Il secondo intento riguardava l’aspetto medico-igienico della
cremazione. A questo proposito è interessante notare la massiccia presenza di medici nelle
logge, e il ruolo di primo piano svolto nella Società di Cremazione da medici-massoni.
Il terzo e più importante intento era, come sempre, portare un attacco alla Chiesa cattolica
che vedeva questa pratica come contraria alla fede nella resurrezione dei corpi.
Pleonastico sottolineare che Garibaldi stesso scelse di farsi cremare dopo la morte.
La propaganda massonica contribuì a creare e diffondere il mito di Garibaldi negli anni a
venire. Il radicale antiteismo massonico si espresse in una blasfema quanto indicativa giaculatoria che adorava Garibaldi come «Padre della nazione, Figlio del popolo e Spirito della
libertà». Appare chiaro il tentativo di sostituire con nuovi santi e nuovi eroi quelli della tradizione
cattolica, come già era avvenuto durante la rivoluzione francese.
Specialmente negli anni di Crispi, intorno alla figura di Garibaldi si cercò di costruire una
religione civile imperniata sul mito laico del Risorgimento, e la Massoneria, all’epoca sotto la
guida di Adriano Lemmi, ebbe un ruolo centrale nell’orchestrazione e nella riuscita
dell’operazione. Garibaldi fu il nome più diffuso fra quelli dati alle logge della penisola o alle
logge italiane d’oltremare. Altre denominazioni a lui riferibili - come Caprera, Luce di Caprera,
Leone di Caprera – risultavano chiaramente ispirate dall’intento di rendere omaggio al nizzardo.
La Massoneria inoltre si fece promotrice di innumerevoli cerimonie, commemorazioni,
inaugurazioni di lapidi e monumenti, intitolazioni di strade e piazze alla memoria di Garibaldi. La
più importante di queste iniziative fu l’inaugurazione a Roma del monumento sul Gianicolo, che
si tenne emblematicamente il 20 settembre 1895, nel venticinquesimo anniversario di Porta Pia.
Nella cerimonia il massone e capo del governo Francesco Crispi sproloquiò in un enfatico
discorso sul contributo fornito dalle forze laiche all’unità.
Il Risorgimento appare così chiaramente come una tappa di quel processo rivoluzionario e
anticristiano che mira a scardinare «ogni vincolo più sacro, - come si legge in un articolo della
Civiltà Cattolica del 1852 - che lega uomo con uomo, nella Chiesa, nella società, nella famiglia,
per ricostruire l’umanità sotto una nuova forma di totale servaggio in cui lo Stato sia tutto, e i
capi della setta sieno lo Stato». Tra questi capi Garibaldi, né eroe né puro idealista ma avido
calcolatore e cinico esecutore degli interessi di un solo padrone, la massoneria e la sua visione
anticristiana del mondo.
Note
[1]. Per le notizie inerenti alle cariche massoniche ricoperte da Giuseppe Garibaldi cfr. Aldo A.
Mola, Storia della massoneria italiana, Bompiani, Milano 2001, pp. 66ss.; cfr. anche A.A. Mola,
Garibaldi vivo, Antologia degli scritti con documenti inediti, Mazzotta, Milano 1982; A.A. Mola e
L. Polo Friz, I primi vent’anni di Giuseppe Garibaldi in Massoneria, estratto dalla Nuova
Antologia, f.2143, luglio-settembre 1982, Le Monnier, Firenze. Per parte cattolica cfr. invece
Epiphanius, Massoneria e sette segrete: la faccia occulta della storia, Editrice Ichthys, Roma.
[2]. Introduzione di Silvio Vitale a Giacinto de’ Sivo, L’Italia e il suo dramma politico nel 1861,
Editoriale Il Giglio, Napoli 2002, p. XII.
[3]. Giacinto de’ Sivo, op. cit., p.70.
[4]. Giacinto de’ Sivo, op. cit.,p. 21.
[5]. La Chiesa risponde con le Istruzioni del 16 novembre e del 18 dicembre 1860 che
sanciscono l’assoluta incompatibilità delle leggi sabaude con il magistero cattolico.
[6]. Le manifestazioni di odio religioso durante il Risorgimento furono molteplici: veri e propri
assalti a convegni cattolici, processioni disperse dai militari, giovani francescani incarcerati per
renitenza alla leva, santuari e luoghi di culto incendiati. Cfr.Marco Invernizzi, I cattolici contro
l’Unità d’Italia?, Ed. Piemme, Alessandria 2002.
[7]. In Angela Pellicciari, L’altro Risorgimento, Piemme, Casale Monferrato (Al) 2000, pp.
264-265.
[8]. Per le citazioni di Garibaldi cfr. G. Garibaldi, Scritti politici e militari. Ricordi e pensieri
inediti, Voghera 1907.
[9]. Tale definizione risalirebbe alla costruzione del Tempio di Gerusalemme ai tempi del re
Salomone. Hiram, figlio di una vedova e di un fabbro fu ucciso perché si riteneva che fosse in
possesso della Parola Sacra. La massoneria rappresenterebbe quindi la vedova, madre di
Hiram.
[10]. A.A. Mola, Storia della massoneria italiana, cit., p.69
A.GRIPPO

domenica 3 luglio 2011

LA MORTE DI FERDINANDO II

La morte di Ferdinando II coincise con la scomparsa intellettuale e spirituale dei popoli meridionali dalla storia. Al tempo stesso la morte del Borbone determinò anche la fine della configurazione monarchica nella storia.
Al suo regno ne successe un altro di breve durata e poi venne una nuova dinastia non più rappresentante della legittimità monarchica ma strumento subordinato di una Legge e di una Costituzione nelle quali risiedeva il nuovo potere. Con Ferdinando II, perciò, finisce anche l'idea tradizionale di Monarchia.

Ora, poichè riteniamo maturi i tempi per la ripresa del cammino nella storia dei popoli meridionali è inevitabile che si debba ripartire dal più grande Re che la storia meridionale dei tempi contemporanei abbia conosciuto: Ferdinando II.

E poichè egli non esercitò la Sovranità silenziosamente, cercheremo di comprendere n suo messaggio attraverso la quotidianità dei comportamenti pubblici e privati. Ferdinando II, che conosceva alla perfezione la lingua francese, si esprimeva abitualmente in lingua napoletana e siciliana, ad alta voce, affinchè tutti potessero ascoltarlo e comprenderlo. Queste lingue si prestavano a discorsi gergali, dalla morale sottintesa e ciò gli permetteva di dare lezioni che avevano sempre delle ripercussioni nella pubblica moralità.

Era un modo ben preciso di esercitare la Sovranità.

Ovviamente le due lingue erano usate con reciprocità da tutti: in privato come a corte, tra gli ufficiali e tra i popolani. Era una manifestazione di napoletanità che si estendeva ai gusti. Tutto doveva essere napoletano. I sigari, sua costante passione, erano anch'essi rigorosamente napoletani. Si può, perciò, dire che Ferdinando II fu un principe napoletano in tutto incarnando la figura del pater familiae meridionale ottocentesco. La sua tavola non aveva nulla di sfarzoso: era simile a quella di un qualsiasi benestante napoletano del tempo. Il piatto tipico era rappresentato dai maccheroni. Ghiotto di baccalà, gustava il soffritto e la caponata. Vero cultore della cipolla cruda, ne mangiava ogni giorno convinto delle sue proprietà benefiche. Amante della pizza, aveva fatto costruire un forno a legna nel parco reale di Capodimonte da Domenico Testa, il figlio del più celebre pizzaiolo che aveva fatta fortuna ai tempi di suo nonno, il re Ferdinando I.

Dalla tavola al talamo. Ottimo marito e padre affettuoso fu sempre fedele al sacramento del matrimonio e la critica antiborbonica, che setacciò tutta la sua vita, nella serietà coniugale riconobbe un aspetto del carattere non suscettibile di censura. Devoto sin 'anche nella ritualità gestuale ed esteriore, con gli anni accentuò gli scrupoli religiosi.

Il De Cesare raccolse tanti aneddoti attorno alla sua pietà religiosa. E' utile conoscerli per comprendere meglio il personaggio. Se era in carrozza, incontrando un sacerdote che portava il Viatico, si fermava, scendeva e, a capo scoperto, si genufletteva su entrambe le ginocchia, restando nella devota posizione sino a quando il viatico era passato. Ascoltava la messa ogni giorno, si confessava spesso e tutte le sere, riunita la famiglia, recitava il rosario. Entrando nella camera matrimoniale, prima di coricarsi, baciava con le mani le immagini sacre che adornavano le pareti ed infine recitava le preghiere inginocchiato ai piedi del letto. Tuttavia non fu mai un bigotto; anzi era attento a smascherare gli impostori che cercavano di attirare la sua benevolenza facendo i bizzochi. Un giorno riprese l'architetto di corte Francesco Gavaudan perchè costui, volendo manifestare zelo religioso aveva messe nel cappello alcune immaginette sacre per farle cadere al passaggio di Ferdinando, scoprendosi il capo. Il Re la prima volta fece fnta di niente; la seconda, persa la pazienza, disse: "don Ciccì, levate sti santi da dinto 'o cappiello, e finimmo sta cummedia".

In Ferdinando II si concentrarono tutti gli aspetti del meridionale che visse nella prima metà dell'Ottocento: epoca di fermenti, di speranze e di ottimismo. Valori falliti assieme alla storia del popolo sudista, con la rivoluzione del 1860.

Il Re aveva due tenute nel Tavoliere delle Puglie, a Tressanti e a Santa Cecilia. Quando giungeva il tempo della Fiera di Foggia, la più importante manifestazione agricola della zona, egli ci teneva ad essere presente, girando, orgogliosamente, nel suo bel vestito di velluto verde, comportandosi come un buon latifondista pugliese che andava a comperare cavalli e a vendere i suoi prodotti. Si trovava a proprio agio perchè aveva preso a conoscere i proprietari che giungevano a Foggia per la manifestazione e si divertiva nell'apprendere dei matrimoni che annualmente venivano combinati tra i padiglioni della Fiera. Terminato lo svago foggiano, smetteva l'abito di velluto e tornava ad indossare l'uniforme militare. Con questa immagine è stato consegnato alla storia per quel dipinto, eseguito da Vincenzo De Mita detto il foggiano, che, litografato, troneggiava in tutti gli uffici pubblici del regno.

E' un'immagine semplice e bonaria: il Re compare nell'uniforme blu di comandante in "capo dell'esercito con l'immancabile sigaro napoletano nella mano destra.

Cos'altro si può aggiungere per illustrare la personalità ferdinandea? Profondo conoscitore del genere umano, basava le sue osservazioni su elementi semplici: era convinto che per risolvere i problemi bastasse il senso comune e con questo criterio valutava il carattere degli uomini. Dei quali non gli interessava il censo o le virtù quanto le debolezze. Dal comportamento spigoloso e tagliente, nel bene e nel male, non celava mai sentimenti e rancori. A causa della sua diffidenza verso tutti i pubblici funzionari impartiva continuamente rigide disposizioni. Era giunto a proibire, a corte, qualsiasi gioco di denaro mentre nei locali pubblici di tutto il regno erano proibiti i giochi d'azzardo. Obbligato a convivere col difficile mondo di corte ove inevitabilmente si annidavano l'adulazione e l'ipocrisia dei cortigiani, si rifugiava ogni volta che l'occasione lo consentiva, nelle feste popolari, trovandosi a proprio agio. Qui coglieva l'occasione di conoscere e fraternizzare con il popolo, il suo popolo, il popolo napoletano, stringendo solidi rapporti all'insegna di quella che è stata definita la borbonica cordialità. Arduo modo di esercitare la regalità, ma efficiente sistema per comprendere le necessità e le idealità della società civile. Amico del popolo e diffidente verso i ceti agiati, pensò sempre che dalle file di questi ceti fossero usciti i nemici della monarchia e della società cristiana. Non nascose mai la sua antipatia per gli avvocati, i paglietta, sui quali faceva ricadere le responsabilità dei drammatici avvenimenti che portarono ai fatti del 15 maggio 1848. In conseguenza qualcuno, molto opportunamente, lo ha definito re degli umili. Di essi effettivamente si circondò ogni qual volta le circostanze lo consentirono. Dalla scelta dei sacerdoti chiamati ad impartire l'educazione religiosa ai principi reali, tutti di umile origine 7 , ai fedeli marinai della lancia reale provenienti in massima parte dal popolare rione di Santa Lucia.
di Francesco Maurizio Di Giovine

sabato 2 aprile 2011

Gheddafi, Finmeccanica, petrolio, acqua e Dinaro...

Marcello Pamio - 30 marzo 2011

Gheddafi e la Francia
Per circa 3 anni il presidente sionista francese, Nicolas Sarkozy, si è occupato personalmente, assieme al suo staff, di due colossali affari con la Libia: la vendita di una intera flotta aerea da combattimento e un mega investimento per costruire centrali atomiche a Tripoli e dintorni. Tutto ovviamente di marca francese! Stiamo parlando di affari da centinaia di miliardi di euro.
Questi contratti nessuno di noi ovviamente li ha visti, né tantomeno Sarkò.
Di volta in volta infatti il dittatore libico ha sostituito le aziende francesi con aziende russe e anche italiane, facendo schiumare dalla rabbia il presidente francese.
Ecco perché a fine novembre scorso, il presidente francese inizia una controffensiva mediatica verso Gheddafi.
Casualmente, proprio in quei giorni, arriva a Parigi con tutta la famiglia, uno degli uomini più vicini al colonnello libico, Nouri Mesmari, capo del protocollo di Gheddafi.
Mesmari chiedendo asilo politico per sé e la famiglia è diventato, da allora, il più prezioso collaboratore di Sarkò, svelando segreti militari ed economici della Libia…
A guerra iniziata, sempre casualmente, il primo obiettivo dei caccia francesi è stata la flotta aerea libica, composta da 20 aerei tutti russi (Mig21-23 e Sukhol22), come pure da 40 elicotteri, sempre di produzione russa...

Gheddafi e l’oro
Dopo che la Cina ha annunciato il conio dello Yuan d’oro si sono alzate strane voci sul sistema aureo del Medio Oriente.
Non a caso il principale iniziatore e fautore del pagamento senza dollari né euro è stato proprio Gheddafi, il quale ha fatto appello al mondo arabo per adottare una valuta unica: il dinaro d’oro!
Il colonnello libico ha anche proposto di creare uno Sato Africano Unito che conti 200 milioni di persone!
Questo ovviamente non s’ha da fare e infatti secondo il sionista Sarkò: “i libici hanno attaccato la sicurezza finanziaria del genere umano”!
Gheddafi in pratica ha deciso di ripetere i tentativi del generale francese De Gaulle, di abbandonare l’uso della carta igienica americana, chiamata dollaro, e tornare all’oro.
Verso la metà degli anni 60 infatti il generale De Gaulle con l’aiuto di un influente monetarista francese, Jacques Rueff, denunciò la pericolosa egemonia del dollaro, proponendo per questo il ritorno all’oro come mezzo di regolazione delle transizioni internazionali (abbandonò anche la NATO).
Molto probabilmente Gheddafi stava attaccando il principale potere della moderna democrazia sionista: il sistema bancario internazionale!

Gheddafi e l’oro nero
Secondo le ultime ricerche, la Libia risulta avere un capitale incalcolabile di greggio e gas.
Non solo, il petrolio che possiede è di ottima qualità perché raffinarlo costa pochissimo, cosa questa rarissima in natura. Stiamo parlando di circa 44 miliardi di barili.[1]
Inoltre la Libia, a differenza degli altri paesi africani non è indebitata con la Banca Mondiale o con il Fondo Monetario Internazionale, quindi Gheddafi può dettare le condizioni e non subirle.
Il petrolio della Libia finirà nelle mani dell’inglese British Petroleum (che dopo il disastro ambientale non naviga in buone acque), della francese Total e dell’americana Chevron.
L’italiana ENI è fuori! L’Eni infatti perde le concessioni a favore della BP, Chevron e Total.

Gheddafi e l’oro blu
La Libia, oltre all’oro nero e al gas è ricchissima di acqua, l’oro blu.
Sotto i piedi di Gheddafi, sembra esservi un mare grande quanto la Germania, una riserva blu grande almeno 35.000 chilometri cubi.[2]

Gheddafi & Unicredit
La Central Bank of Libya, ha in portafoglio il 4,99% delle azioni dell’Unicredit e insieme alla Libyan Investment Authority – che detiene il 2,59% di Finmeccanica di cui è il secondo azionista - ha raggiunto il 7,58% del capitale di Unicredit[3].
Per tanto oggi, la Libia è il primo azionista di Unicredit![4]

Gheddafi & Finmeccanica
Non tutti sono al corrente che Finmeccanica è una delle principali aziende mondiali che si aggiudica ogni anno miliardi in commesse con i vari governi occidentali.
Nel 2007 il Pentagono, sede della Difesa statunitense, ha commissionato a Finmeccanica la fornitura del valore di 6 miliardi di dollari per la costruzione di 145 velivoli per l’esercito e l’aeronautica.[5] Nel quinquennio 2011-2016 sempre Finmeccanica si è aggiudicata un contratto del valore di circa 570 milioni di sterline con il Ministero della Difesa Britannico.[6]
Dal 2008, dopo l’acquisizione dell’americana Drs, Finmeccanica è uno dei principali fornitori del Pentagono[7] e dal 2009 Gheddafi è entrato nel gioco acquistando le azioni di Finmeccanica.
Gli Stati Uniti d’America sono molto preoccupati per questa pesantissima ingerenza libica nei loro sporchi affari economici e guerrafondai!

Conclusione
Dopo tutto questo, viene da sé, che il colonnello non poteva rimanere nel suo trono d’orato per molto tempo ancora.
A questo punto è importante non farsi confondere le idee dalla propaganda vergognosa del Regime mediatico: in Libia non c’entrano nulla le sommosse popolari, i movimenti o le rivolte.
La Libia NON è la Tunisia, NON è il Marocco o l’Egitto!
L’intervento criminale guerrafondaio di Francia, Inghilterra Usa e Italia era in programma da tempo e non dopo le recenti sommosse radiocomandate.
I motivi sono assai diversi, ma il filo conduttore è sempre lo stesso: interessi economici!
Da una parte Gheddafi ha commesso il grosso errore di ficcare il naso negli affari sporchi anglostatunitensi mediante Finmeccanica, dall’altra il colonnello nel corso degli ultimi anni si è fatto alcuni potenti nemici tra cui Israele, Usa, Francia e Inghilterra.

Non si può scardinare il sistema monetario internazionale senza pagarne conseguenze pesantissime.
Ultimo ma non per importanza, la Libia possiede allettanti e ricchi giacimenti (petrolio di ottima qualità, gas, acqua dolce e perfino uranio nel sahara libico). Tutto questo, per gli squali e gli avvoltoi mascherati da banchieri internazionali, è grasso che cola.
Ricordiamo che i banchieri internazionale sono gli unici che guadagnano miliardi di dollari da guerre, carestie, disastri naturali e artificiali, attentati, terremoti.

Per approfondimenti:

“La Libia viene bombardata perché Gheddafi vuole introdurre il Dinaro d’oro?” http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=8108
“Ma quale Gheddafi, Sarkò ha dichiarato guerra all’Italia”, Franco Bechis, fbechis.blogspot.com

[1] “Breve analisi sulle motivazioni della guerra e il probabile dopo Gheddafi”, http://www.agoravox.it/Breve-analisi-sulle-motivazioni.html
[2] “Libia, acqua dolce sotterranea grande come la Germania”, Paolo della Sala, “Il Secolo XIX” del 25 marzo 2011
[3] “Unicredit, Finmeccanica, i capitali libici e le armi italiane” di Giorgio Beretta, Unimondo
[4] “Gheddafi entra in Finmeccanica”, “La Repubblica”, 22 gennaio 2011
[5] “Finmeccanica: commessa dal Pentagono per 6 miliardi di dollari”, www.corrispondenti.net/index.php?id=18983
[6] “Finmeccanica si aggiudica commessa da 570 milioni di sterline”, http://www.investireoggi.it/news/finmeccanica-si-aggiudica-commessa-da-570-mln-di-sterline/
[7] “Gheddafi entra in Finmeccanica i libici al 2%, gli USA in allarme” http://www.dirittiglobali.it

domenica 20 marzo 2011

E' GUERRA.

Questa volta la guerra ce la siamo portata sull'uscio di casa!!!
Altro che azione effettuata su mandato dell'Onu, come vorrebbe far credere il nostro Beneamato Presidente della Repubblica, nonchè Presidente del Consiglio supremo di Guerra.
Dopo aver dimenticato il grido di libertà dei popoli ungherese del 56 e di quello cecoslovacco del 68, improvvisamente sente quello del popolo libico del 2011!!!
Intanto i nostri aerei fanno ricognizioni sulla Libia, le portaeree americane lanciano centinaia di missili sulla terra libica, i caccia francesi continuano a bombardare la terra di Libia!!!!
Almeno questa volta ci stanno risparmiando la storiella delle bombe intelligenti per giustificare un'azione dettata solo dal desiderio guerrafondaio e dalla smodata voglia di assurgere a sceriffi della libertà!!!
Una sorta di partito della libertà internazionale, cui da subito ha aderito il Nostro Presidente, ove fin troppo evidenti sono gli interessi economici che ruotano intorno alle fonti energetiche di cui è depositaria la Libia: nè potrebbe essere altrimenti.
Non si spiegherebbe, infatti, il silenzio assordante che circonda il supplizio dei cristiani in Sudan, o dei cristiani copti in Egitto. Nè da meno sono le difficoltà dei cristiani in Pakistan o dei maroniti in Libano.
Purtroppo le orecchie sono aperte solo alle grida di libertà del popolo libico!!!!!

domenica 13 marzo 2011

17 MARZO 2011: UNA FESTA E UN DUBBIO

Ad una settimana dal giorno di festa, l'Unità nazionale continua a sollecitare molti dubbi in uno come me, che è cresciuto all'insegna di una visione estremamente critica delle vicende che portarono all'unità nazionale.

Abituato da sempre a non dare niente per scontato e a diffidare di una interpretazione troppo eroica, e di stampo massonico, quale era stata l'era risorgimentale, mi sono imbattuto, senza volerlo, in un caso che può rappresentare l'emblema di quel periodo.

Il mio paese di origine è arrampicato sui monti dauni ai confini con la Campania e il Molise, e come tutti i borghi di quelle parti presenta un nucleo storico fatto di vicoletti, chiamate rampe, e largari, che chiamano piazze.

In una di queste strettoie, ancora oggi, si può vedere una croce scolpita su una pietra muraria, che le leggende dei nonni indicavano come il luogo ove furono fucilati sei briganti.

A metà degli anni settanta la curiosità di un sacerdote portò a scoprire che quei briganti erano solo qualche soldato sbandato dell'esercito borbonico, ed alcuni intellettuali locali, che, dopo un processo sommario, su ordine del comandante delle truppe garibaldine, furono passati per le armi: era l'autunno del 1860.

Quel comandante Garibaldino era tale Liborio Romano, omonimo del primo ministro borbonico, poi prefetto sabaudo di Napoli!

Quel comandante con la camicia Rossa fu poi processato per i delitti compiuti in tutta la Capitanata nella Fortezza del Carmine a Napoli, ma le carte processuali sono sempre state negate, o forse stanno nascoste in qualche armadio dell'archivio nazionale del garibaldini a Torino.

Basta cercare. Sicuramente si troveranno tanti episodi che costellarono quel periodo storico che di fatto dimostrano come quella che fu combattuta, di fatto, fu una guerra civile, in cui spesso la popolazione fu oggetto di repressione atroce e sanguinaria, basta ricordare i fatti di Pontelandolfo e Casalduni.

Abbiamo, però, imparato che a scrivere la storia sono sempre i vincitori, e che episodi, come quello narrato, era meglio porlo nella leggenda dei briganti fucilati, piuttosto che nell'ambito di una discutibile azione militare dei garibaldini: per la storiografia massonica era molto più facile, molto più comodo, molto più utile!

Permettemi ancora una domanda: ma se per i fatti della Resistenza, più recenti, si invoca una memoria condivisa, perchè mai, per accadimenti di 150 anni fa non si debba fare lo stesso?

Per chi vuo approfondire: P.Soccio:Unità e Brigantaggio, M.Marcantonio: Sangue e unità, C.Alianello: La conquista del Sud, http://www.ilfrizzo.it/Storia0993.htm