domenica 28 agosto 2011

Chiesa e Massoneria: l'uomo tra verità e potere

La Massoneria ha una radice cristiana. Secondo il filosofo francese Jean Guitton, nel suo volumetto Il Cristo dilacerato, questa radice è situata là dove si trova la madre di tutte le eresie: nella gnosi.
La gnosi, che ricompare ciclicamente, consiste nel tentativo di leggere l’evento cristiano all’interno di una struttura culturale e filosofica, anziché accettare che l’evento di Cristo giudichi la ragione e quindi moduli la conoscenza in maniera diversa. Dentro le radici di quella che modernamente è apparsa come la Massoneria sta questa fermentazione radicale della gnosi. La gnosi fa pensare ad alcuni di essere illuminati, vale a dire di possedere l’interpretazione adeguata del cristianesimo. Il quale non sarebbe più un evento, ma un messaggio; dunque, come tale, essenzialmente interpretabile. La verità del cristianesimo, poi, secondo l’eresia gnostica, consiste nella verità dell’interpretazione, e su di essa si radica una progettualità di tipo moralistico, che i Catari e i Valdesi hanno continuamente riproposto nel cuore della cristianità occidentale.

Questa immagine gnostica e quindi moralistica del cristianesimo segna tutta la storia della cristianità, anche occidentale. La segna in maniera minoritaria: è una realtà che non riesce a forzare l’unitarietà della cultura e della civiltà cattolica del Medioevo, perché essendo un fenomeno di tipo sostanzialmente intellettuale e religioso, nel senso stretto della parola, non ha la forza di diventare un’alternativa alla grandiosità del processo cattolico di inculturazione della fede, di creazione di una civiltà come quella medioevale. Civiltà che è fortemente unitaria riguardo alla fede ma, allo stesso tempo, variegatissima riguardo alle realizzazioni culturali, sociali e politiche.

C'è poi un secondo passaggio: ad un certo punto, la Massoneria esce allo scoperto. Diventa un fatto esplicito, palese, polarizzante. Un fatto propulsivo nella cultura e nella società dell’Occidente. Essendo la società dell’Occidente leader della società mondiale, la Massoneria diventa un fattore .promuovente un certo tipo di scristianizzazione della vita sociale, tanto nella vecchia Europa quanto nel Nuovo Mondo. Chi ha dimorato in America Latina si rende conto agevolmente che i processi che in Europa hanno significato le grandi rivoluzioni liberali, borghesi e massoniche del diciannovesimo secolo hanno la loro conferma puntuale nell’America del Sud. Garibaldi, l’eroe dei due mondi, dimostra la capacità di questa forza nuova di assumere una responsabilità contemporaneamente nell’Occidente europeo e nell’America del Sud.

L’antropologia adeguata si rivela definitivamente nell’avvenimento di Cristo e diventa esperienza dell’uomo solo nel riconoscimento e per il riconoscimento di Cristo. L’uomo vero ci è donato, la verità profonda del nostro essere ci è donata. L’uomo rimane un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso se non incontra Gesù Cristo (questa è l’affermazione sostanziale dell’enciclica di Giovanni Paolo II Redemptor hominis al n. 10). Cristo rivela all’uomo tutta la verità su di lui. Questa è l’antropologia cristiana: nasce dall’avvenimento di Cristo che è grazia e si consegna alla libertà, perché la grazia si riferisce alla libertà, considera la libertà come la grande destinataria della sua presenza e quindi la grazia sollecita la libertà. Ci dispiace per Lutero e per tutti suoi seguaci... ma la grazia non elimina la libertà, piuttosto la promuove, esattamente come l’abbraccio del padre e della madre, anche naturalmente, non spengono la personalità dei figli, ma la sollecitano a diventare responsabile. Questa è l’antropologia cristiana, dunque un’antropologia che non ha bisogno di negare il male, che non ha bisogno di negare il bene, che non ha bisogno di sottolineare l’aspetto pervasivo delle strutture in cui l’uomo vive la sua vita e che certamente lo condizionano, ma che vede l’uomo emergere nel suo essere figlio di Dio, perché questa affiliazione da Dio è rivelata e resa esperienza nell’avvenimento di Cristo riconosciuto e per l’effusione del Suo Spirito. Abbiamo dunque visto per secoli, in atto dentro la tradizione cattolica dell’Occidente, la realizzazione di questa antropologia adeguata, che non è una santificazione del Medioevo – non c’è niente nella storia che possa essere santificato e reso perfetto – ma è certamente una grande esperienza di presenza missionaria che ha determinato una grande capacità creativa dei singoli, delle persone o dei gruppi.

La Massoneria riprende o si assume una responsabilità enorme, dal punto di vista culturale e sociale, quando muta radicalmente lo scenario dell’antropologia; quando all’antropologia della verità sostituisce l’antropologia del potere. L’antropologia della verità trova il suo compimento nella rivelazione cristiana e il suo ambito di educazione e di esperienza nell’appartenenza al popolo di Dio che è la Chiesa, fonte della maturazione delle singole personalità: infatti la Chiesa ha come obiettivo supremo non l’allargamento della sua struttura istituzionale ma la crescita del popolo cristiano, “sacramenta propter homines” dicevano i nostri antichi maestri scolastici: nella loro grevità ontologica dicevano che la Chiesa è per l’educazione dell’uomo, perché l’uomo poi, maturato nella sua identità cristiana, si assuma la sua precisa responsabilità di essere missionario nel mondo, di fronte a Cristo e di fronte agli uomini. Questo è anche il grande grido che viene dalla Novo millennium ineunte di Giovanni Paolo Il.

All’antropologia della persona, che è persona perché appartiene a Cristo nel Suo popolo, si sostituisce l'individuo che ha già valore in sé per sé. Il cuore del massone è nella modernità e la modernità è la costruzione di un mondo senza Dio. Per costruire un mondo senza Dio si può ancora parlare di Dio, si deve anche parlare di Dio, perché sarebbe assolutamente spropositato, indebito, strategicamente scorretto parlarne subito male o dire che non esiste. Ma evidentemente sul piano del diritto, sul piano teorico, sul piano dell’impostazione filosofica e antropologica, l’uomo è concepito come alternativa a Dio. La Massoneria si radica in questo nuovo ambiente nel quale matura in sinergia con i filoni razionalisti e illuministi, che saranno più rigorosamente anti-deisti e anti-cattolici, e dove non c’è posto per una concezione religiosa della vita che radichi l’uomo nella domanda di senso, di verità, di bellezza e di giustizia, perché questo tipo di domande sono sostanzialmente alienanti.

La Massoneria è dunque all’interno del laicismo moderno e contemporaneo e ne condivide con il laicismo moderno la grande preoccupazione di costruire un mondo come se Dio non esistesse; magari non formalmente contro Dio, ma ,come se Dio non esistesse. Credo che siano questi gli elementi del confronto. Credo che tutti noi abbiamo il diritto di essere quello che siamo, di scegliere le nostre opzioni, di essere coerenti con i nostri principi, di realizzare nella vita sociale una espressione anche pubblica delle nostre convinzioni, ma è necessario che sappiamo la posta in gioco. La posta in gioco è un’alternativa sul piano dell’antropologia: o c’è l’uomo della verità o c’è l’uomo del potere, dal punto di vista della, definizione ultima.

RICORDA

«Proprio considerando tutti questi elementi la Dichiarazione della S. Congregazione afferma che la Iscrizione alle associazioni massoniche “rimane proibita dalla Chiesa” e i fedeli che vi si iscrivono “sono in stato di peccato grave e non possono accedere alla Santa Comunione”. Con questa ultima espressione, la S. Congregazione indica ai fedeli che tale iscrizione costituisce obiettivamente un peccato grave e, precisando che gli aderenti a una associazione massonica non possono accedere alla Santa Comunione, essa vuole illuminare la coscienza dei fedeli su di una grave conseguenza che essi devono trarre dalla loro adesione a una loggia massonica. La S. Congregazione dichiara infine che “non compete alle autorità ecclesiastiche locali di pronunciarsi sulla natura delle associazioni massoniche, con un giudizio che implichi deroga a quanto sopra stabilito”». (Inconciliabilità tra fede cristiana e massoneria. Riflessioni a un anno dalla Dichiarazione della Congregazione per la Dottrina della Fede ,1985).

mons.LUIGI NEGRI

sabato 30 luglio 2011

Scontri nelle masserie fra briganti e galantuomini: UN'ALTRA STORIA D'ITALIA

Le masserie e i boschi di Martina (TA) conservano segni e ricordi di antiche violenze: fortificazioni, grotte e caverne sperdute sono stati presidi e rifugi nella lotta tra galantuomini e briganti. Il più delle volte, però, le divisioni all'interno del ceto dei galantuomini passavano anche fra i briganti, utilizzati nella lotta delle fazioni locali
e a volte, con un disegno politico di più ampia portata, nella lotta delle cricche locali contro il potere centrale. Da questo punto di vista il personaggio più importante che si sia aggirato nei nostri boschi e tra le nostre masserie è senza dubbio Ciro Annichiarico, il brigante che nel primo ventennio dell'Ottocento ha fatto il bello e il cattivo tempo in quel di Taranto, Martina, Ostuni e Francavilla.
Don Ciro Annichiarico, chierico di Grottaglie, si diede alla macchia perché
accusato dell'assassinio di don Giuseppe Motolese, avvenuto il 16 luglio 1803.
Anche don Giuseppe era un chierico, ma proveniva da una delle famiglie più
ricche di Grottaglie, quella dei Motolese. Fra i due giovani chierici il motivo della contesa era stato una bella donna, Antonia Zaccaria, fidanzata di don Ciro. I boschi da allora divennero il rifugio di don Ciro e della sua banda. Egli ha lasciato persino il suo nome ad un monte, presso la masseria del Duca, vicino al monte Trazzonara: il monte di Papa Ciro. I galantuomini utilizzarono il brigante Ciro Annichiarico finché fece loro comodo, gli assicurarono la loro protezione servendosene per le loro vendette, per illeciti arricchimenti e nella lotta contro l'autorità del Regno di Napoli. Quando, dopo la Restaurazione, i Borboni vollero
ripristinare il loro potere, fu inviato in Puglia, per reprimere il brigantaggio, il generale Riccardo Church. Già alla fine del 1817 la sorte di Ciro Annichiarico era segnata perché non era riuscito a stabilire una salda alleanza con i Vardarelli, che con la loro banda di briganti controllavano la Puglia settentrionale.
E soprattutto perché il potere centrale si proponeva di spezzare la catena di fratellanza tra le persone di un certo grado e posizione e i capi birbanti. Venuta meno la protezione della borghesia agraria, don Ciro poteva ancora illudersi di essere il capo della setta dei Decisi e di andare a piantare l'albero della libertà.
Ormai doveva soltanto scappare e nella fuga compie, proprio a Martina, una delle sue ultime scorrerie: nel gennaio 1818 attacca la masseria Piccoli, ove sequestra e ricatta il proprietario Pietro Chiarelli, obbligandolo a versare la somma di tremiladucati. Dopo la sconfitta subita a San Marzano, è ancora in una masseria, la masseria di Scasserba, che Ciro Annichiarico oppone l'ultima resistenza prima di essere catturato il 7 febbraio 1818. Doveva incutere un certo timore, per tutto quello che avrebbe potuto rivelare, tanto che, solo un giorno dopo la cattura, venne processato e fucilato. La testa staccata dal busto, cotta ed essiccata nel
forno, fu esposta per mesi, in una gabbia di ferro, alla porta di Grottaglie. Più breve e stata l'avventura dell'altro grande brigante, il sergente Romano, di Gioia del Colle. Dopo l'Unita di Italia, Pasquale Domenico Romano, figlio di un capraio,un sergente che aveva imparato a leggere e scrivere nell'esercito borbonico, nel gennaio 1861 era stato rinviato a Gioia senza arte ne parte. Qui al primo costituirsi dei comitati borbonici fu designato comandante generale delle squadre insorgenti di Gioia e dei Comuni limitrofi. La sua motivazione politica appare,
quindi, più immediata e meglio organizzata nel quadro della reazione borbonica contro l'Unità d'Italia, contro i Savoia, i Piemontesi e i Liberali. Anch'egli attuò il tentativo, maturato durante il convegno nel bosco delle Pianelle, di allargare le sue alleanze: invio emissari a Carmine Crocco che, dai boschi di Monticchio, con una banda di circa duemila uomini, terrorizzava il Melfese, per promuovere insieme l'insurrezione controrivoluzionaria delle popolazioni meridionali, onde
ripristinare il caduto regime.
Come era accaduto a Ciro Annichiarico, anche il sergente Romano rimase
isolato e la sua banda fu assalita dalla Fanteria e dalla Guardia Nazionale, presso la masseria Monaci, il 1 dicembre 1862. La banda fu sgomitata e si salvarono i briganti che riuscirono a fuggire. Tra questi il cegliese Francesco Monaco, reclutato dai briganti a Specchia Tarantina il 29 settembre 1862. Tra le masserie di Martina, come dichiarò poi Domenica Rosa Martinelli di Ceglie al giudice istruttore, il Monaco con la sua banda, visse con lei la sua storia d'amore. Trovo ospitalità a Pilozzo, Spezzatarallo, Monte del Duca e Pilano, finché non fu ucciso
dagli stessi suoi compagni. Il sergente Romano, invece, finì ucciso a sciabolate dai soldati piemontesi nei boschi di Vallata, presso Gioia del Colle, il 5 gennaio 1863. Il brigantaggio era stato sconfitto e, negli anni successivi, ci fu una repressione ancora più dura e indiscriminata. Il fenomeno nella nostra zona aveva assunto grandi dimensioni, numerosissimi i martinesi che si erano dati al brigantaggio: Francesco Carlo, Agostino Paolo Conserva, Francesco Cito, Giuseppe Conforti, Domenico di Monna, Lorenzo Fragnelli, Vito Leonardo Lucarelli, Carlo Miola, Giuseppe e Ignazio Semeraro, Vincenzo Tagliente, Angelo Vinci e Benedetto Maggi. Il brigantaggio è parte integrante della storia dell'Italia meridionale e, come tale, va studiato e approfondito senza misteri e senza infingimenti, penetrandone la vera portata. Che non fu quella di guerriglia sanguinaria fine a se stessa, ma di un movimento generato da profonde ragioni
sociali e che trovo la sua spinta principale nell'ansia di conquista di migliori condizioni di vita.
Se successivamente il brigantaggio continuò ad esistere, esso fu considerato
come un fenomeno di delinquenza comune, di cui dovettero occuparsi i magistrati e non gli storici e tanto meno i politici. Ma le profonde ragioni sociali, che avevano animato il brigantaggio, non ebbero una risposta adeguata e il malessere che permaneva nelle nostre campagne ebbe la dura risposta dello Stato. All'epoca dei nostri nonni avvenne a Martina una rapina che da tutti fu considerata un atto di brigantaggio. Fu assaltata e saccheggiata la masseria San Paolo del più ricco possidente di Martina, don Ciccillo Basile, detto Masella, dal nome di una delle
sue tante proprietà. L'episodio e ricordato da molti, anche oggi, con i toni favolosi della storia di briganti: all'imbrunire del 23 settembre 1922, mentre la famiglia padronale recitava il rosario, apparvero i briganti, senza che nessun cane ne avesse segnalato la presenza. Il padrone don Ciccillo fu catturato nella cappella, colpito a bastonate, legato e chiuso in un sacco. La stessa sorte tocco ai servitori fedeli, che avevano tentato di resistere: Cosimo Brigida, Giovanni Liuzzi, Nicola Caramia e Paolo Ferroforte. I briganti erano una quindicina, tra essi vi era anche
una donna travestita da monaca, tutti con la faccia tingiiute. Diedero anche una randellata al guardiano. La signora, donna Nina Lenti, vista l'inutilità di ogni resistenza, implorò i briganti dicendo: prendete tutto quello che volete, basta che non toccate la nutrice e il bambino. Il bambino era il giovane erede don Alfonso Basile. I briganti vollero che fosse imbandita la tavola e si fecero servire dalla signora e da donna Rosa Basile. Per allietare il banchetto si misero persino a strimpellare il pianoforte. Prima dell'alba lasciarono la masseria con il bottino di
argenteria, gioielli e danaro.
Don Ciccillo riuscì a liberarli per primo e diede l'allarme in città. Fu subito arrestato il guardiano Pietro Massafra, accusato di aver segnalato la via libera ai banditi con la luce di una candela e di aver avvelenato il cane di guardia, trovato morto alcuni giorni dopo nel bosco cisure longhe della masseria Cavaliere. Il guardiano, a solo trentun'anni, morì in carcere per le bastonate ricevute ancor prima del processo. La moglie, convinta della sua innocenza, inutilmente aveva venduto persino a fazzatore per pagare gli avvocati. Pietro Massafra fino alla fine si dichiarò innocente, ma quando nella camera ardente il suo cadavere finì
bruciato da un cero che si era rovesciato, sembrò raggiunto dalla maledizione. Gli altri banditi furono arrestati dopo qualche mese, grazie alle soffiate raccolte nell'ambiente della malavita locale, da Emanuele Primavera, un caporione fascista. Ancora una volta un regime forte, come era quello fascista, con la repressione più dura e senza andare tanto per il sottile, ristabilì l'ordine e trovò i colpevoli da punire. Il processo iniziò a Taranto il 18 ottobre 1924 e già il 12 novembre la Corte d'Assise era in grado di pronunciare la sentenza di condanna per rapina qualificata e lesioni per 18 imputati, con pene che andavano da 23 a 15 anni di carcere. Tra essi, oltre al Massafra già defunto, furono condannati due altri martinesi: Antonio Cannarile, detto u russìne, un contadino povero, e Pietro Semeraro, detto mustazze, un fruttivendolo. Gli altri condannati furono: Angelo Rotunno di Ostuni, ritenuto il capo, Oronzo Di Giuseppe, Tommaso Sarcinella, Angelo Rodio, Maria Grassi e Isabella Calella di Locorotondo, Vito Luigi Mancarella e Vito Sbano di San Vito dei Normanni, Giuseppe Longo di Mesagne, Salvatore Zito di Taranto, Stefano Indolfo, Filippo Giancola, Nicola Semeraro e Leonardo D'Errico di Cisternino e Giulio Bergametto di Latiano. I ricchi galantuomini avevano ritrovato il regime d'ordine pronto a difendere prestigio offeso e ricchezze minacciate, mentre le profonde ragioni sociali, che erano state all'origine del brigantaggio e dei delitti contro la proprietà e la persona, non
avevano ancora trovato i loro teorici meridionalisti.
Infatti le masse popolari, incapaci di espressione, come diceva Benedetto Croce, non facevano Storia.


Bibliografia
A. LUCARELLI, Il brigantaggio politico del Mezzogiorno d'Italia (1815-1818),
Bari, 1942.
A. LUCARELLI, Il brigantaggio politico delle Puglie dopo il 1860 - Il
sergente Romano, Bari, 1946.
V. CARELLA, Il brigantaggio politico nel brindisino dopo l'Unità, Fasano, 1974.
Ringraziamenti
Siamo in debito con Ottavio Guida, direttore dell'Archivio di Stato di Taranto, perl'assistenza fornitaci, durante la consultazione del Registro dei Reati della Corte d'Assise di Taranto.

(FRANCESCO SEMERARO)

giovedì 14 luglio 2011

Garibaldi e la massoneria

È noto a tutti, fin dai banchi di scuola, che non si può «parlare male di Garibaldi»: il suo
“coraggio” e il “purissimo idealismo” ne fanno un eroe dell’apologetica risorgimentalista.
Ma analizzando con maggiore accuratezza la vita del presunto eroe, si possono mettere in
luce molti aspetti oscuri o poco noti del suo passato. Di certo il nizzardo non brillava per
coerenza di idee se Mazzini lo definì «una vera canna al vento» e Denis Mack Smith lo valutò
«rozzo e incolto».
Indagando meglio si scopre, ad esempio, che la sua lotta contro l’oppressore non comprende
la tappa in Uruguay dove preferì combattere dalla parte degli inglesi, per garantirne il monopolio
commerciale sul Rio della Plata e contrastare così l’egemonia spagnola, nazione troppo
cattolica per il proverbiale antipapismo garibaldino e soprattutto per il suo iniziale avvicinamento
alla Massoneria d’oltreoceano. O ancora che fu artefice di un meschino traffico di schiavi al suo
ritorno dal Perù nel 1852. Garibaldi «m’ha sempre portato i Chinesi nel numero imbarcati e tutti
grassi e in buona salute, perché li trattava come uomini e non come bestie», scriveva con
ammirazione e una punta di ironia l’armatore torinese Pietro Denegri.
Nel 1835 a Rio de Janeiro, Garibaldi strinse amicizia con Livio Zambeccari, esponente di
spicco della massoneria e segretario del presidente del Rio Grande. Ma fu a Montevideo nel
1844 che indossò il primo “grembiulino” ed “ebbe la luce” massonica. Aveva trentasette anni, e
la loggia era L’Asil de la Vertud, una loggia irregolare, emanazione della massoneria brasiliana,
non riconosciuta dalle principali obbedienze massoniche internazionali, quali erano la Gran
Loggia d’Inghilterra e il Grande Oriente di Francia. Sempre nel corso del 1844 regolarizzò la
sua posizione presso la loggia Les Amis de la Patrie di Montevideo posta all’obbedienza del
grande Oriente di Parigi. La sua affiliazione comparve successivamente anche nella loggia
Tomp Kins, a Stapleton nello stato di New York.
La carriera massonica di Garibaldi culminò nel 33° grado del rito Scozzese ricevuto a Torino
il 17 marzo 1862, nella elezione a Gran Maestro del 21 maggio 1864 e nella suprema carica di
Gran Hierofante del Rito Egiziano di Memphis-Misraim nel 1881.[1] Garibaldi, inoltre si
interessò anche di spiritismo e occultismo.
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Garibaldi e la massoneria
Scritto da Ettore
Domenica 03 Aprile 2011 16:59
Ma prima di passare a descrivere più nel dettaglio l’influenza della massoneria sul nizzardo è
opportuno ricordare che tutti i Riti massonici, sebbene divisi al loro interno, fin dalla Rivoluzione
francese perseguivano un disegno finale metapolitico, che aveva come fine ultimo la distruzione
del Cristianesimo e il ritorno dell’umanità ad un’età precristiana, pagana, gnostica.
Il potere della massoneria si rafforzò con Napoleone, con cui l’attacco alla Chiesa di Roma
divenne sempre più palese fino all’annessione del 10 giugno 1808 dello Stato pontificio
all’Impero francese.
Il convegno massonico di Strasburgo del 1847 organizzò i moti rivoluzionari dell’anno
successivo che si propagarono contemporaneamente a Parigi, Vienna, Berlino, Milano, Roma e
Napoli.
La più nota ma, al contempo, impenetrabile società segreta dell’Ottocento fu la Carboneria,
emanazione della loggia dei Filaleti, cioè Amici della libertà, francesi. Organizzata in Vendite,
operava in stretto contatto col Rito Scozzese, era diretta da un vertice chiamato Alta Vendita
composta a livello internazionale da quaranta membri. Molto diffuse in Piemonte e nell’Italia
settentrionale, la prima Vendita meridionale fu stabilita a Capua, nel 1809.
Mazzini fu iniziato alla Carboneria fra il 1827 e il 1829. I Carbonari appartenevano agli
Illuminati di Baviera e vi apparteneva anche Mazzini che – tra l’altro – credeva fermamente
nella reincarnazione. Conobbe la Blavatsky, fondatrice della Società Teosofica, e fu molto
amico di John Yarker, Gran Jerofante di Memphis e Misraim.
Carboneria e Alta Vendita entrarono in gioco per l’unificazione dell’Italia: alla prima spettava il
compito di rovesciare il Trono, alla seconda quello di assalire il Papa e disgregare il clero. Il loro
braccio armato era l’orda garibaldina. Ma, per portare a termine la sua missione, Garibaldi
aveva bisogno di un protettore potente: la onnipresente massoneria britannica. Perfino lo
storico ufficiale della Massoneria italiana Aldo Alessandro Mola scrive «la spedizione dei Mille si
svolse dall’inizio alla fine sotto tutela britannica: o, se si preferisce, della Massoneria inglese».
E mentre il Pisacane – anche lui massone - falliva l’azione di Sapri, Garibaldi tramava
nell’ombra in Inghilterra nell’areopago della loggia Philadelphes contro il Regno delle Due
Sicilie. Nella loggia londinese si raccoglievano infatti i più importanti esponenti
dell’internazionalismo democratico e socialista, tutti propensi a collocare la massoneria su
posizioni fortemente antipapiste.
Presi i necessari accordi con la massoneria inglese, il nizzardo partì da Liverpool alla volta del
Nuovo mondo dove frequentò e batté cassa presso le logge massoniche di New York.
La sconfitta dei Borbone fu comprata a peso d’oro. Oro massonico che corruppe le tasche dei
generali quasi quanto la propaganda ne aveva corrotto la mente. Lo studioso De Vita ha
accuratamente ricostruito la provenienza di questo tesoro attraverso una documentata ricerca
negli archivi delle logge massoniche scozzesi di Edimburgo.
A Garibaldi furono quindi fatti pervenire, per l’organizzazione della spedizione, tre milioni di
franchi francesi, tutti convertiti in piastre d’oro turche per occultarne la provenienza e per
favorirne il cambio in tutto il bacino del Mediterraneo. Non è facile valutare il valore finanziario di
una somma così ingente, ma si tratta senza dubbio di milioni di dollari odierni. Alla colletta
contribuirono, oltre ai fratelli inglesi e americani, anche quelli canadesi. La massoneria mal
sopportava quei sovrani di Napoli: troppo cattolici e ben difesi, da un lato dall’ “acqua santa” del
Papa, dall’altro da quella salata e ricca di traffici del Mediterraneo; ma soprattutto bruciava loro
ancora la persecuzione ordinata, tra il 1825 e il 1832, contro le logge massoniche siciliane.
L’appartenenza massonica di Garibaldi contribuì quindi, a finanziare la conquista del Sud.
Come è dimostrato dallo stesso Garibaldi che, nel ringraziare i propri fratelli di Palermo per il
conferimento dell’altissimo grado assegnatogli in seno alla Massoneria, tenne a precisare, nella
lettera inviata il 20 marzo 1862, che assumeva «di gran cuore il Supremo Ufficio» perché, da
una parte, conferito dal libero voto di uomini liberi, e dall’altra per «l’appoggio che essi diedero
da Marsala al Volturno, nella grande opera dello affrancamento delle province meridionali»…
Ai Maestri Massoni dell’Italia, Garibaldi fece notare inoltre l’importanza che ogni Massone
cooperasse affinché Roma divenisse, oltre che italiana, la capitale di una «grande e possente
Nazione».
Tutti i fratelli, perciò, dovevano tenersi pronti ad accorrere «sotto quella bandiera per la quale
fu sparso tanto sangue italiano».
E tra i Mille che si mossero dallo scoglio di Quarto o tra i loro sostenitori più o meno ufficiali, ci
furono molti massoni: a iniziare da Bixio (della Trionfo ligure, tessera numero 105), a Crispi,
compreso Cavour, primo ministro del governo sardo, e lord Palmerston, ministro di Sua Maestà
britannica.
Lo studioso che più di ogni altro ha sottolineato l’importanza di questa «setta» - come da lui
stesso più volte è definita – nella dissoluzione del Regno della Due Sicilie è stato Giacinto DÈ
Sivo: la «setta che da ottant’anni va minando i troni e gli altari, guadagnava a’ nostri tempi un
re, nato re, nato cristiano e cattolico» e ne ha fatto sua «vittima e strumento», inducendolo a
spargere la corruzione nel Regno delle Sicilie, a fornire oro e legittimazione all’orda garibaldina,
a colpire egli stesso alle spalle il monarca delle Sicilie, quando questi era ormai sul punto di
fermare l’invasione .[2]
Continua il de’ Sivo «il Piemonte co’ suoi ambasciatori sparse tra noi il veleno delle
sette;corruppe con oro e promesse i duci e i ministri napoletani; metteva in armi sulle genovesi
terre un capitano di ventura, al quale con bugiarde mistificazioni aveva preparato immeritata
rinomanza, gli dava oro, navi e bandiere, gli dava seguaci d’ogni nazione e d’ogni linguaggio, e
il lanciava famelico e sitibondo sulle nostre terre felici» . [3]
Questo dunque, il complotto che ha corrotto il Regno: inglesi e piemontesi corruppero e
comprarono con oro massonico gran parte del governo di Francesco II, compreso il primo
ministro Liborio Romano e con lui, larga parte degli stati maggiori militari e della burocrazia.
Il dÈ Sivo avverte e mette in guardia contro la minaccia dei settari, svelandone il disegno
ultimo di attacco alla Chiesa «la guerra che oggi si fa, non è al Papa come Re di Roma
solamente, non si limita solo al potere temporale, non è contro la dominazione pontificia che si
scaglia la bava velenosa dei settari: è anche direttamente contro i principi della religione, che
vorrebbe farsi sostituire dal vantato razionalismo» . [4]
E, a distanza di più di un secolo, non possiamo che riconoscere la perspicacia dello storico di
Maddaloni che nutriva la consapevolezza del carattere intrinsecamente rivoluzionario e
anticristiano dell’aggressione al Regno delle Due Sicilie. Un episodio del ben più ampio scontro
fra religione e ateismo.
La setta iniziò dalla soppressione degli ordini religiosi per passare all’incameramento dei beni
ecclesiastici, sempre in nome della libertà e della costituzione. Poi la massoneria scatenò in
Italia una vera e propria guerra alla Chiesa cattolica, utilizzando i Savoia e i liberali, come
avanguardia della rivoluzione.
Si dichiararono soppresse «tutte le corporazioni e gli stabilimenti di qualsivoglia genere degli
Ordini monastici e delle corporazioni regolari o secolari esistenti» e si impose a tutti i religiosi di
lasciare i conventi. A distanza di un mese, seguì la soppressione degli ordini religiosi e la
confisca dei beni.
La persecuzione anticattolica fece intascare all’élite illuminata e liberale circa un milione di
ettari di terra e migliaia di edifici, tra conventi e romitori. La popolazione perse gli usi civici per
secoli garantiti dalla Chiesa e insorse ovunque guadagnandosi l’appellativo di briganti. I decreti
del 18 ottobre 1860, sulla abolizione dei privilegi del clero[5] , e quelli del 17 febbraio 1861, che
abrogarono il concordato del 1818 fra il Regno delle Due Sicilie e la Santa Sede, comportarono
la laicizzazione delle opere ecclesiastiche, la soppressione di numerosi ordini religiosi oltre
all’impedimento di celebrare messe e alla chiusura di alcuni luoghi di culto
[6]
e spinsero all’opposizione anche quella parte del clero ancora indecisa nei confronti della
rivoluzione. Numerosi frati e sacerdoti, militarono nelle fila della reazione, i vescovi
incoraggiavano gli insorti con le loro pastorali e rinnovavano le scomuniche della Santa Sede
che definiva sacrilego il Governo italiano. Si fronteggiarono dunque, come già era stato nel
1799 e durante le invasioni napoleoniche, due idee del mondo, l’una che trovava nei simboli
sacri della religione e della chiesa la sua bandiera, l’altra che riecheggiava e diffondeva le idee
propugnate dalla massoneria, quella “setta” che, per dirla ancora una volta con il de’ Sivo, tanto
ha inciso nelle vicende del Risorgimento italiano.
D’altra parte la stessa massoneria non nasconde, anzi rivendica orgogliosamente l’apporto al
Risorgimento. Il Gran Maestro Armando Corona, in un Convegno dell’88 sul tema La
liberazione d’Italia nell’opera della massoneria, così conclude «la liberazione d’Italia – opera
eminentemente massonica – fu sorretta, in ogni suo passaggio fondamentale, dalle iniziative
delle Comunioni massoniche d’oltralpe». La massoneria «fu il vero ispiratore e motore del
Risorgimento» [7]. Scopo della sua missione era quello di distruggere la Chiesa cattolica e
sostituirla con quella massonica guidata da Londra.
Suo artefice era Garibaldi, che aveva speso la sua vita a scristianizzare i popoli, in particolare
quello italiano. Definiva il papa Pio IX «un metro cubo di letame»[8] , lo riteneva «acerrimo
nemico dell’Italia e dell’unità», lo considerava «la più nociva di tutte le creature, perché egli, più
di nessun altro, è un ostacolo al progresso umano, alla fratellanza degli uomini e dei popoli».
Nel 1862 si tenne la prima Costituente massonica italiana: 26 le Logge i cui delegati
nominarono Garibaldi, insignito da Crispi dei gradi scozzesi dal 4° al 33°, Primo Massone
d’Italia.
Il Grande Oriente Italiano, dunque, inizialmente dominato da esponenti vicini a Cavour, preferì
affidare la carica di Gran maestro a Costantino Nigra e conferire a Garibaldi soltanto un titolo
onorifico, come quello di Primo Massone d’Italia, gratificandolo di una medaglia commemorativa
di oro massiccio.
Nel cuore massonico del Risorgimento si facevano quindi strada due sentimenti: quello
cavouriano, decisamente elitario e dinastico, e quello democratico, più popolare. Iniziava una
dura lotta per assicurarsi la guida della famiglia massonica. Garibaldi divenne immediatamente
il candidato sostenuto dai democratici, ma quando Costantino Nigra rassegnò le dimissioni da
Gran maestro e un’assemblea straordinaria fu chiamata a eleggere il suo successore, il
prescelto risultò Filippo Cordova, già ministro di Cavour, che prevalse su Garibaldi con 15 voti
contro 13.
Per l’anno successivo, il ’63, i “figli della vedova” [9] fissarono l’appuntamento «a Roma
liberata» ma non riuscirono a portarsi oltre Firenze.
Dopo la nomina a sovrano Gran Commendatore del Gran Consiglio, conferita nel 1863,
l’assemblea dei liberi muratori italiani riunitasi a Firenze nel maggio del 1864 e comprendente
ormai ben 72 logge, elesse Garibaldi al primo scrutinio con 45 voti (fave) su 50, Gran Maestro
dei liberi muratori comprendenti i due riti, scozzese ed italiano. La speranza era quella di
organizzare tutte le frange della Massoneria italiana in una obbedienza universale, con una
aggregazione, come lui stesso scrisse, «in una sola, di tutte le società esistenti, che tendono al
miglioramento morale e materiale della famiglia italiana».
La nomina a Gran Maestro rappresentò un momento fondamentale nella storia della
massoneria italiana, nelle logge infatti, iniziò a scatenarsi sempre più intensamente la bufera
dell’anticlericalismo radicale di cui Garibaldi era il principale e insuperato esponente.
Bisognava conquistare Roma: chi voleva farlo era amico dei massoni, chi temporeggiava,
nemico. Il Papato era l’arcinemico da combattere e abbattere.
Con un linguaggio che fondeva insieme misticismo messianico e positivismo razionalistico,
Garibaldi intendeva condurre i fratelli tre puntini ad una «religione del vero». Così farneticava da
Torino fin dal ‘61 «incombe ai veri sacerdoti di Cristo una missione sublime»: liberare i popoli e
finalmente un giorno la patria riconoscente «inciderà i loro nomi tra gli eroici figli che la
redensero»[10] .
Il 18 marzo del ‘67 da Firenze, Garibaldi attaccava «non abbiamo ancora Patria, perché non
abbiamo Roma, chi in massoneria potrà contenderci una Patria, una Roma morale, una Roma
massonica? Io sono del parere che l’unità massonica trarrà a sé l’unità politica d’Italia».
L’obiettivo era chiaro: l’iniziativa militare che doveva condurre a Roma, necessitava l’armonia
interna e l’abbandono di beghe e dispute su rituali e tra Obbedienze. Tutti uniti in vista di un
obiettivo preciso: la breccia di Porta Pia.
L’antiteismo garibaldino lo spinse al punto di affermare «Se sorgesse una società del
demonio, che combattesse dispotismo e preti, mi arruolerei nelle sue file».
Garibaldi, nel giugno 1867, pur conservando la carica di Gran maestro del Consiglio
scozzesista palermitano, accettò anche la nomina a Gran maestro onorario a vita del Grande
Oriente d’Italia che gli venne conferita dalla Costituente massonica di Napoli.
Il legame con l’istituzione liberomuratoria era ormai saldissimo. Non valsero a incrinarlo
neppure le divergenze emerse in occasione dell’Anticoncilio di Napoli del 1869, a cui Garibaldi
aderì e dal quale invece la Massoneria, rimase sostanzialmente estranea.
Nell’autunno del ‘67 il vessillo della Vedova sventolò sull’orda garibaldina diretta a Roma.
L’azione dei volontari avrebbe dovuto avere man forte da una insurrezione preparata dai
cosiddetti patrioti romani. Ma la partecipazione popolare fu scarsa e il 3 novembre 1867, le
truppe francesi – da poco sbarcate a Civitavecchia – attaccarono e sconfissero i garibaldini
nella gloriosa battaglia di Mentana.
Fermato a Sinalunga, per paura che potesse realizzare un colpo di mano sulla frontiera
pontificia, Garibaldi si ritirò a Caprera dove si diede alla scrittura.
Nel romanzo autobiografico il Clelia ovvero il governo dei preti, il Primo Massone divenuto
ormai il Solitario di Caprera, come si autodefinì, descrisse giovani patrioti fanatici, preti
demoniaci e licenziosi in pagine trasudanti anticlericalismo e antiteismo.
Dall’isola, nel luglio del 1868, inviò al Supremo Consiglio della massoneria una missiva per
comunicare la sua rinuncia a qualunque titolo o grado a lui attribuito, rimanendo però legato alla
fratellanza laica, considerata fattore trainante della Massoneria. I componenti del Supremo
Organo decisero di trasmettere a Garibaldi un messaggio per dissuaderlo dalla rinuncia ma lui
si chiuse nel silenzio e non diede neanche una risposta alla missiva del Supremo Consiglio che,
in sua vece, elevò alla carica di Gran Maestro del rito scozzese antico ed accettato il fratello
Federico Campanella.
In una lettera del 1869 alla loggia Il vero progresso sociale di Genova, Garibaldi – nonostante
la rinuncia a cariche massoniche – continuò comunque a sostenere che «la massoneria che
porta l’impronta dell’Alleanza Democratica Universale e della Fratellanza umana ha per
missione di combattere il dispotismo ed il prete, entrambi rappresentanti dell’oscurantismo, del
servaggio e della miseria».
Era ormai però lontano dalle dispute interne alla fratellanza. Per questo non partecipò
neppure all’Assemblea costituente massonica riunita nella capitale Firenze il 31 maggio 1869
per ratificare la fusione del Gran Consiglio simbolico di Milano con il Grande Oriente d’Italia.
Unione sancita con la firma di un documento sottoscritto nel maggio del precedente anno.
Accettò, invece, nel 1872 la carica di Gran Maestro onorario a vita del grande Oriente d’Italia.
Secondo Marcel Valmy, autore dell’ opera I Massoni edita da Contini nel 1991, Garibaldi fu
anche il primo Gran Maestro della loggia Odre du rite Mamphis Misrain, un sistema a 90 gradi
gerarchici legato a tradizioni dell’antico Egitto.
Sul versante del razionalismo positivistico di stampo massonico, Garibaldi iniziò anche una
battaglia volta a diffondere in Italia l’idea e la pratica della cremazione. Tutto il movimento
pro-cremazione fu infatti direttamente promosso dalle logge massoniche e ebbe fra i suoi
maggiori dirigenti molte figure di primo piano della Massoneria. Senza l’appoggio dei vertici
della Massoneria la cremazione non avrebbe avuto lo sviluppo che invece ebbe nel ventennio
tra il 1875 e il 1895.
La nascita della cremazione in Italia non fu solo determinata da un impegno individuale di
alcuni singoli massoni, ma fu la conseguenza di un intervento ufficiale, tanto dal punto di vista
economico che organizzativo, delle logge. Lo stretto vincolo cremazione-massoneria fu ben
chiaro alla Chiesa che infatti si oppose strenuamente allo sviluppo di questa pratica.
Tre erano gli intenti massonici in questa battaglia: il primo era quello di laicizzare – o meglio
scristianizzare - oltre la società civile anche la scienza, cercando di privare la realtà naturale di
ogni riferimento metafisico. Il secondo intento riguardava l’aspetto medico-igienico della
cremazione. A questo proposito è interessante notare la massiccia presenza di medici nelle
logge, e il ruolo di primo piano svolto nella Società di Cremazione da medici-massoni.
Il terzo e più importante intento era, come sempre, portare un attacco alla Chiesa cattolica
che vedeva questa pratica come contraria alla fede nella resurrezione dei corpi.
Pleonastico sottolineare che Garibaldi stesso scelse di farsi cremare dopo la morte.
La propaganda massonica contribuì a creare e diffondere il mito di Garibaldi negli anni a
venire. Il radicale antiteismo massonico si espresse in una blasfema quanto indicativa giaculatoria che adorava Garibaldi come «Padre della nazione, Figlio del popolo e Spirito della
libertà». Appare chiaro il tentativo di sostituire con nuovi santi e nuovi eroi quelli della tradizione
cattolica, come già era avvenuto durante la rivoluzione francese.
Specialmente negli anni di Crispi, intorno alla figura di Garibaldi si cercò di costruire una
religione civile imperniata sul mito laico del Risorgimento, e la Massoneria, all’epoca sotto la
guida di Adriano Lemmi, ebbe un ruolo centrale nell’orchestrazione e nella riuscita
dell’operazione. Garibaldi fu il nome più diffuso fra quelli dati alle logge della penisola o alle
logge italiane d’oltremare. Altre denominazioni a lui riferibili - come Caprera, Luce di Caprera,
Leone di Caprera – risultavano chiaramente ispirate dall’intento di rendere omaggio al nizzardo.
La Massoneria inoltre si fece promotrice di innumerevoli cerimonie, commemorazioni,
inaugurazioni di lapidi e monumenti, intitolazioni di strade e piazze alla memoria di Garibaldi. La
più importante di queste iniziative fu l’inaugurazione a Roma del monumento sul Gianicolo, che
si tenne emblematicamente il 20 settembre 1895, nel venticinquesimo anniversario di Porta Pia.
Nella cerimonia il massone e capo del governo Francesco Crispi sproloquiò in un enfatico
discorso sul contributo fornito dalle forze laiche all’unità.
Il Risorgimento appare così chiaramente come una tappa di quel processo rivoluzionario e
anticristiano che mira a scardinare «ogni vincolo più sacro, - come si legge in un articolo della
Civiltà Cattolica del 1852 - che lega uomo con uomo, nella Chiesa, nella società, nella famiglia,
per ricostruire l’umanità sotto una nuova forma di totale servaggio in cui lo Stato sia tutto, e i
capi della setta sieno lo Stato». Tra questi capi Garibaldi, né eroe né puro idealista ma avido
calcolatore e cinico esecutore degli interessi di un solo padrone, la massoneria e la sua visione
anticristiana del mondo.
Note
[1]. Per le notizie inerenti alle cariche massoniche ricoperte da Giuseppe Garibaldi cfr. Aldo A.
Mola, Storia della massoneria italiana, Bompiani, Milano 2001, pp. 66ss.; cfr. anche A.A. Mola,
Garibaldi vivo, Antologia degli scritti con documenti inediti, Mazzotta, Milano 1982; A.A. Mola e
L. Polo Friz, I primi vent’anni di Giuseppe Garibaldi in Massoneria, estratto dalla Nuova
Antologia, f.2143, luglio-settembre 1982, Le Monnier, Firenze. Per parte cattolica cfr. invece
Epiphanius, Massoneria e sette segrete: la faccia occulta della storia, Editrice Ichthys, Roma.
[2]. Introduzione di Silvio Vitale a Giacinto de’ Sivo, L’Italia e il suo dramma politico nel 1861,
Editoriale Il Giglio, Napoli 2002, p. XII.
[3]. Giacinto de’ Sivo, op. cit., p.70.
[4]. Giacinto de’ Sivo, op. cit.,p. 21.
[5]. La Chiesa risponde con le Istruzioni del 16 novembre e del 18 dicembre 1860 che
sanciscono l’assoluta incompatibilità delle leggi sabaude con il magistero cattolico.
[6]. Le manifestazioni di odio religioso durante il Risorgimento furono molteplici: veri e propri
assalti a convegni cattolici, processioni disperse dai militari, giovani francescani incarcerati per
renitenza alla leva, santuari e luoghi di culto incendiati. Cfr.Marco Invernizzi, I cattolici contro
l’Unità d’Italia?, Ed. Piemme, Alessandria 2002.
[7]. In Angela Pellicciari, L’altro Risorgimento, Piemme, Casale Monferrato (Al) 2000, pp.
264-265.
[8]. Per le citazioni di Garibaldi cfr. G. Garibaldi, Scritti politici e militari. Ricordi e pensieri
inediti, Voghera 1907.
[9]. Tale definizione risalirebbe alla costruzione del Tempio di Gerusalemme ai tempi del re
Salomone. Hiram, figlio di una vedova e di un fabbro fu ucciso perché si riteneva che fosse in
possesso della Parola Sacra. La massoneria rappresenterebbe quindi la vedova, madre di
Hiram.
[10]. A.A. Mola, Storia della massoneria italiana, cit., p.69
A.GRIPPO

domenica 3 luglio 2011

LA MORTE DI FERDINANDO II

La morte di Ferdinando II coincise con la scomparsa intellettuale e spirituale dei popoli meridionali dalla storia. Al tempo stesso la morte del Borbone determinò anche la fine della configurazione monarchica nella storia.
Al suo regno ne successe un altro di breve durata e poi venne una nuova dinastia non più rappresentante della legittimità monarchica ma strumento subordinato di una Legge e di una Costituzione nelle quali risiedeva il nuovo potere. Con Ferdinando II, perciò, finisce anche l'idea tradizionale di Monarchia.

Ora, poichè riteniamo maturi i tempi per la ripresa del cammino nella storia dei popoli meridionali è inevitabile che si debba ripartire dal più grande Re che la storia meridionale dei tempi contemporanei abbia conosciuto: Ferdinando II.

E poichè egli non esercitò la Sovranità silenziosamente, cercheremo di comprendere n suo messaggio attraverso la quotidianità dei comportamenti pubblici e privati. Ferdinando II, che conosceva alla perfezione la lingua francese, si esprimeva abitualmente in lingua napoletana e siciliana, ad alta voce, affinchè tutti potessero ascoltarlo e comprenderlo. Queste lingue si prestavano a discorsi gergali, dalla morale sottintesa e ciò gli permetteva di dare lezioni che avevano sempre delle ripercussioni nella pubblica moralità.

Era un modo ben preciso di esercitare la Sovranità.

Ovviamente le due lingue erano usate con reciprocità da tutti: in privato come a corte, tra gli ufficiali e tra i popolani. Era una manifestazione di napoletanità che si estendeva ai gusti. Tutto doveva essere napoletano. I sigari, sua costante passione, erano anch'essi rigorosamente napoletani. Si può, perciò, dire che Ferdinando II fu un principe napoletano in tutto incarnando la figura del pater familiae meridionale ottocentesco. La sua tavola non aveva nulla di sfarzoso: era simile a quella di un qualsiasi benestante napoletano del tempo. Il piatto tipico era rappresentato dai maccheroni. Ghiotto di baccalà, gustava il soffritto e la caponata. Vero cultore della cipolla cruda, ne mangiava ogni giorno convinto delle sue proprietà benefiche. Amante della pizza, aveva fatto costruire un forno a legna nel parco reale di Capodimonte da Domenico Testa, il figlio del più celebre pizzaiolo che aveva fatta fortuna ai tempi di suo nonno, il re Ferdinando I.

Dalla tavola al talamo. Ottimo marito e padre affettuoso fu sempre fedele al sacramento del matrimonio e la critica antiborbonica, che setacciò tutta la sua vita, nella serietà coniugale riconobbe un aspetto del carattere non suscettibile di censura. Devoto sin 'anche nella ritualità gestuale ed esteriore, con gli anni accentuò gli scrupoli religiosi.

Il De Cesare raccolse tanti aneddoti attorno alla sua pietà religiosa. E' utile conoscerli per comprendere meglio il personaggio. Se era in carrozza, incontrando un sacerdote che portava il Viatico, si fermava, scendeva e, a capo scoperto, si genufletteva su entrambe le ginocchia, restando nella devota posizione sino a quando il viatico era passato. Ascoltava la messa ogni giorno, si confessava spesso e tutte le sere, riunita la famiglia, recitava il rosario. Entrando nella camera matrimoniale, prima di coricarsi, baciava con le mani le immagini sacre che adornavano le pareti ed infine recitava le preghiere inginocchiato ai piedi del letto. Tuttavia non fu mai un bigotto; anzi era attento a smascherare gli impostori che cercavano di attirare la sua benevolenza facendo i bizzochi. Un giorno riprese l'architetto di corte Francesco Gavaudan perchè costui, volendo manifestare zelo religioso aveva messe nel cappello alcune immaginette sacre per farle cadere al passaggio di Ferdinando, scoprendosi il capo. Il Re la prima volta fece fnta di niente; la seconda, persa la pazienza, disse: "don Ciccì, levate sti santi da dinto 'o cappiello, e finimmo sta cummedia".

In Ferdinando II si concentrarono tutti gli aspetti del meridionale che visse nella prima metà dell'Ottocento: epoca di fermenti, di speranze e di ottimismo. Valori falliti assieme alla storia del popolo sudista, con la rivoluzione del 1860.

Il Re aveva due tenute nel Tavoliere delle Puglie, a Tressanti e a Santa Cecilia. Quando giungeva il tempo della Fiera di Foggia, la più importante manifestazione agricola della zona, egli ci teneva ad essere presente, girando, orgogliosamente, nel suo bel vestito di velluto verde, comportandosi come un buon latifondista pugliese che andava a comperare cavalli e a vendere i suoi prodotti. Si trovava a proprio agio perchè aveva preso a conoscere i proprietari che giungevano a Foggia per la manifestazione e si divertiva nell'apprendere dei matrimoni che annualmente venivano combinati tra i padiglioni della Fiera. Terminato lo svago foggiano, smetteva l'abito di velluto e tornava ad indossare l'uniforme militare. Con questa immagine è stato consegnato alla storia per quel dipinto, eseguito da Vincenzo De Mita detto il foggiano, che, litografato, troneggiava in tutti gli uffici pubblici del regno.

E' un'immagine semplice e bonaria: il Re compare nell'uniforme blu di comandante in "capo dell'esercito con l'immancabile sigaro napoletano nella mano destra.

Cos'altro si può aggiungere per illustrare la personalità ferdinandea? Profondo conoscitore del genere umano, basava le sue osservazioni su elementi semplici: era convinto che per risolvere i problemi bastasse il senso comune e con questo criterio valutava il carattere degli uomini. Dei quali non gli interessava il censo o le virtù quanto le debolezze. Dal comportamento spigoloso e tagliente, nel bene e nel male, non celava mai sentimenti e rancori. A causa della sua diffidenza verso tutti i pubblici funzionari impartiva continuamente rigide disposizioni. Era giunto a proibire, a corte, qualsiasi gioco di denaro mentre nei locali pubblici di tutto il regno erano proibiti i giochi d'azzardo. Obbligato a convivere col difficile mondo di corte ove inevitabilmente si annidavano l'adulazione e l'ipocrisia dei cortigiani, si rifugiava ogni volta che l'occasione lo consentiva, nelle feste popolari, trovandosi a proprio agio. Qui coglieva l'occasione di conoscere e fraternizzare con il popolo, il suo popolo, il popolo napoletano, stringendo solidi rapporti all'insegna di quella che è stata definita la borbonica cordialità. Arduo modo di esercitare la regalità, ma efficiente sistema per comprendere le necessità e le idealità della società civile. Amico del popolo e diffidente verso i ceti agiati, pensò sempre che dalle file di questi ceti fossero usciti i nemici della monarchia e della società cristiana. Non nascose mai la sua antipatia per gli avvocati, i paglietta, sui quali faceva ricadere le responsabilità dei drammatici avvenimenti che portarono ai fatti del 15 maggio 1848. In conseguenza qualcuno, molto opportunamente, lo ha definito re degli umili. Di essi effettivamente si circondò ogni qual volta le circostanze lo consentirono. Dalla scelta dei sacerdoti chiamati ad impartire l'educazione religiosa ai principi reali, tutti di umile origine 7 , ai fedeli marinai della lancia reale provenienti in massima parte dal popolare rione di Santa Lucia.
di Francesco Maurizio Di Giovine

sabato 2 aprile 2011

Gheddafi, Finmeccanica, petrolio, acqua e Dinaro...

Marcello Pamio - 30 marzo 2011

Gheddafi e la Francia
Per circa 3 anni il presidente sionista francese, Nicolas Sarkozy, si è occupato personalmente, assieme al suo staff, di due colossali affari con la Libia: la vendita di una intera flotta aerea da combattimento e un mega investimento per costruire centrali atomiche a Tripoli e dintorni. Tutto ovviamente di marca francese! Stiamo parlando di affari da centinaia di miliardi di euro.
Questi contratti nessuno di noi ovviamente li ha visti, né tantomeno Sarkò.
Di volta in volta infatti il dittatore libico ha sostituito le aziende francesi con aziende russe e anche italiane, facendo schiumare dalla rabbia il presidente francese.
Ecco perché a fine novembre scorso, il presidente francese inizia una controffensiva mediatica verso Gheddafi.
Casualmente, proprio in quei giorni, arriva a Parigi con tutta la famiglia, uno degli uomini più vicini al colonnello libico, Nouri Mesmari, capo del protocollo di Gheddafi.
Mesmari chiedendo asilo politico per sé e la famiglia è diventato, da allora, il più prezioso collaboratore di Sarkò, svelando segreti militari ed economici della Libia…
A guerra iniziata, sempre casualmente, il primo obiettivo dei caccia francesi è stata la flotta aerea libica, composta da 20 aerei tutti russi (Mig21-23 e Sukhol22), come pure da 40 elicotteri, sempre di produzione russa...

Gheddafi e l’oro
Dopo che la Cina ha annunciato il conio dello Yuan d’oro si sono alzate strane voci sul sistema aureo del Medio Oriente.
Non a caso il principale iniziatore e fautore del pagamento senza dollari né euro è stato proprio Gheddafi, il quale ha fatto appello al mondo arabo per adottare una valuta unica: il dinaro d’oro!
Il colonnello libico ha anche proposto di creare uno Sato Africano Unito che conti 200 milioni di persone!
Questo ovviamente non s’ha da fare e infatti secondo il sionista Sarkò: “i libici hanno attaccato la sicurezza finanziaria del genere umano”!
Gheddafi in pratica ha deciso di ripetere i tentativi del generale francese De Gaulle, di abbandonare l’uso della carta igienica americana, chiamata dollaro, e tornare all’oro.
Verso la metà degli anni 60 infatti il generale De Gaulle con l’aiuto di un influente monetarista francese, Jacques Rueff, denunciò la pericolosa egemonia del dollaro, proponendo per questo il ritorno all’oro come mezzo di regolazione delle transizioni internazionali (abbandonò anche la NATO).
Molto probabilmente Gheddafi stava attaccando il principale potere della moderna democrazia sionista: il sistema bancario internazionale!

Gheddafi e l’oro nero
Secondo le ultime ricerche, la Libia risulta avere un capitale incalcolabile di greggio e gas.
Non solo, il petrolio che possiede è di ottima qualità perché raffinarlo costa pochissimo, cosa questa rarissima in natura. Stiamo parlando di circa 44 miliardi di barili.[1]
Inoltre la Libia, a differenza degli altri paesi africani non è indebitata con la Banca Mondiale o con il Fondo Monetario Internazionale, quindi Gheddafi può dettare le condizioni e non subirle.
Il petrolio della Libia finirà nelle mani dell’inglese British Petroleum (che dopo il disastro ambientale non naviga in buone acque), della francese Total e dell’americana Chevron.
L’italiana ENI è fuori! L’Eni infatti perde le concessioni a favore della BP, Chevron e Total.

Gheddafi e l’oro blu
La Libia, oltre all’oro nero e al gas è ricchissima di acqua, l’oro blu.
Sotto i piedi di Gheddafi, sembra esservi un mare grande quanto la Germania, una riserva blu grande almeno 35.000 chilometri cubi.[2]

Gheddafi & Unicredit
La Central Bank of Libya, ha in portafoglio il 4,99% delle azioni dell’Unicredit e insieme alla Libyan Investment Authority – che detiene il 2,59% di Finmeccanica di cui è il secondo azionista - ha raggiunto il 7,58% del capitale di Unicredit[3].
Per tanto oggi, la Libia è il primo azionista di Unicredit![4]

Gheddafi & Finmeccanica
Non tutti sono al corrente che Finmeccanica è una delle principali aziende mondiali che si aggiudica ogni anno miliardi in commesse con i vari governi occidentali.
Nel 2007 il Pentagono, sede della Difesa statunitense, ha commissionato a Finmeccanica la fornitura del valore di 6 miliardi di dollari per la costruzione di 145 velivoli per l’esercito e l’aeronautica.[5] Nel quinquennio 2011-2016 sempre Finmeccanica si è aggiudicata un contratto del valore di circa 570 milioni di sterline con il Ministero della Difesa Britannico.[6]
Dal 2008, dopo l’acquisizione dell’americana Drs, Finmeccanica è uno dei principali fornitori del Pentagono[7] e dal 2009 Gheddafi è entrato nel gioco acquistando le azioni di Finmeccanica.
Gli Stati Uniti d’America sono molto preoccupati per questa pesantissima ingerenza libica nei loro sporchi affari economici e guerrafondai!

Conclusione
Dopo tutto questo, viene da sé, che il colonnello non poteva rimanere nel suo trono d’orato per molto tempo ancora.
A questo punto è importante non farsi confondere le idee dalla propaganda vergognosa del Regime mediatico: in Libia non c’entrano nulla le sommosse popolari, i movimenti o le rivolte.
La Libia NON è la Tunisia, NON è il Marocco o l’Egitto!
L’intervento criminale guerrafondaio di Francia, Inghilterra Usa e Italia era in programma da tempo e non dopo le recenti sommosse radiocomandate.
I motivi sono assai diversi, ma il filo conduttore è sempre lo stesso: interessi economici!
Da una parte Gheddafi ha commesso il grosso errore di ficcare il naso negli affari sporchi anglostatunitensi mediante Finmeccanica, dall’altra il colonnello nel corso degli ultimi anni si è fatto alcuni potenti nemici tra cui Israele, Usa, Francia e Inghilterra.

Non si può scardinare il sistema monetario internazionale senza pagarne conseguenze pesantissime.
Ultimo ma non per importanza, la Libia possiede allettanti e ricchi giacimenti (petrolio di ottima qualità, gas, acqua dolce e perfino uranio nel sahara libico). Tutto questo, per gli squali e gli avvoltoi mascherati da banchieri internazionali, è grasso che cola.
Ricordiamo che i banchieri internazionale sono gli unici che guadagnano miliardi di dollari da guerre, carestie, disastri naturali e artificiali, attentati, terremoti.

Per approfondimenti:

“La Libia viene bombardata perché Gheddafi vuole introdurre il Dinaro d’oro?” http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=8108
“Ma quale Gheddafi, Sarkò ha dichiarato guerra all’Italia”, Franco Bechis, fbechis.blogspot.com

[1] “Breve analisi sulle motivazioni della guerra e il probabile dopo Gheddafi”, http://www.agoravox.it/Breve-analisi-sulle-motivazioni.html
[2] “Libia, acqua dolce sotterranea grande come la Germania”, Paolo della Sala, “Il Secolo XIX” del 25 marzo 2011
[3] “Unicredit, Finmeccanica, i capitali libici e le armi italiane” di Giorgio Beretta, Unimondo
[4] “Gheddafi entra in Finmeccanica”, “La Repubblica”, 22 gennaio 2011
[5] “Finmeccanica: commessa dal Pentagono per 6 miliardi di dollari”, www.corrispondenti.net/index.php?id=18983
[6] “Finmeccanica si aggiudica commessa da 570 milioni di sterline”, http://www.investireoggi.it/news/finmeccanica-si-aggiudica-commessa-da-570-mln-di-sterline/
[7] “Gheddafi entra in Finmeccanica i libici al 2%, gli USA in allarme” http://www.dirittiglobali.it

domenica 20 marzo 2011

E' GUERRA.

Questa volta la guerra ce la siamo portata sull'uscio di casa!!!
Altro che azione effettuata su mandato dell'Onu, come vorrebbe far credere il nostro Beneamato Presidente della Repubblica, nonchè Presidente del Consiglio supremo di Guerra.
Dopo aver dimenticato il grido di libertà dei popoli ungherese del 56 e di quello cecoslovacco del 68, improvvisamente sente quello del popolo libico del 2011!!!
Intanto i nostri aerei fanno ricognizioni sulla Libia, le portaeree americane lanciano centinaia di missili sulla terra libica, i caccia francesi continuano a bombardare la terra di Libia!!!!
Almeno questa volta ci stanno risparmiando la storiella delle bombe intelligenti per giustificare un'azione dettata solo dal desiderio guerrafondaio e dalla smodata voglia di assurgere a sceriffi della libertà!!!
Una sorta di partito della libertà internazionale, cui da subito ha aderito il Nostro Presidente, ove fin troppo evidenti sono gli interessi economici che ruotano intorno alle fonti energetiche di cui è depositaria la Libia: nè potrebbe essere altrimenti.
Non si spiegherebbe, infatti, il silenzio assordante che circonda il supplizio dei cristiani in Sudan, o dei cristiani copti in Egitto. Nè da meno sono le difficoltà dei cristiani in Pakistan o dei maroniti in Libano.
Purtroppo le orecchie sono aperte solo alle grida di libertà del popolo libico!!!!!

domenica 13 marzo 2011

17 MARZO 2011: UNA FESTA E UN DUBBIO

Ad una settimana dal giorno di festa, l'Unità nazionale continua a sollecitare molti dubbi in uno come me, che è cresciuto all'insegna di una visione estremamente critica delle vicende che portarono all'unità nazionale.

Abituato da sempre a non dare niente per scontato e a diffidare di una interpretazione troppo eroica, e di stampo massonico, quale era stata l'era risorgimentale, mi sono imbattuto, senza volerlo, in un caso che può rappresentare l'emblema di quel periodo.

Il mio paese di origine è arrampicato sui monti dauni ai confini con la Campania e il Molise, e come tutti i borghi di quelle parti presenta un nucleo storico fatto di vicoletti, chiamate rampe, e largari, che chiamano piazze.

In una di queste strettoie, ancora oggi, si può vedere una croce scolpita su una pietra muraria, che le leggende dei nonni indicavano come il luogo ove furono fucilati sei briganti.

A metà degli anni settanta la curiosità di un sacerdote portò a scoprire che quei briganti erano solo qualche soldato sbandato dell'esercito borbonico, ed alcuni intellettuali locali, che, dopo un processo sommario, su ordine del comandante delle truppe garibaldine, furono passati per le armi: era l'autunno del 1860.

Quel comandante Garibaldino era tale Liborio Romano, omonimo del primo ministro borbonico, poi prefetto sabaudo di Napoli!

Quel comandante con la camicia Rossa fu poi processato per i delitti compiuti in tutta la Capitanata nella Fortezza del Carmine a Napoli, ma le carte processuali sono sempre state negate, o forse stanno nascoste in qualche armadio dell'archivio nazionale del garibaldini a Torino.

Basta cercare. Sicuramente si troveranno tanti episodi che costellarono quel periodo storico che di fatto dimostrano come quella che fu combattuta, di fatto, fu una guerra civile, in cui spesso la popolazione fu oggetto di repressione atroce e sanguinaria, basta ricordare i fatti di Pontelandolfo e Casalduni.

Abbiamo, però, imparato che a scrivere la storia sono sempre i vincitori, e che episodi, come quello narrato, era meglio porlo nella leggenda dei briganti fucilati, piuttosto che nell'ambito di una discutibile azione militare dei garibaldini: per la storiografia massonica era molto più facile, molto più comodo, molto più utile!

Permettemi ancora una domanda: ma se per i fatti della Resistenza, più recenti, si invoca una memoria condivisa, perchè mai, per accadimenti di 150 anni fa non si debba fare lo stesso?

Per chi vuo approfondire: P.Soccio:Unità e Brigantaggio, M.Marcantonio: Sangue e unità, C.Alianello: La conquista del Sud, http://www.ilfrizzo.it/Storia0993.htm

venerdì 4 marzo 2011

Le rivoluzioni franco-britanniche: guardando a quel che succede sulle sponde del Mediterraneo

Lino Bottaro
Roma/Balcani – “Il Nord-Africa è in fiamme, un’escalation di rivolte trasformatesi ben presto in guerre civili. Questa è la guerra del Mediterraneo, volta a tracciare le nuove sfere di influenza energetiche e sottrarre ogni controllo all’Italia“. Questo quanto dichiarato da Michele Altamura, direttore dell’Osservatorio Italiano, secondo il quale sono ormai evidenti le manipolazioni delle campagne di disinformazione e dei falsi giustizialismi, volti a creare le “false rivoluzioni colorate” e così delle nuove false capitali islamiche. Un grande ruolo è ora svolto da Internet e dai social-network che rivelano così un volto molto pericolo, ossia di strumento per la creazione di assembramenti e riunioni di protesta, così come per il coordinamento delle grandi masse. In gioco vi sono gli interessi dei giganti petroliferi degli antichi colonizzatori franco-britannici dell’Africa, che con Total, Chevron, Exxon, Shell e BP hanno tracciato i propri imperi energetici, decidendo ora la destituzione di quei Governi che loro stessi hanno contribuito a creare. L’Italia, con i suoi piccoli giganti, è ora costretta ad arretrare sempre di più, vedendosi quasi costretta a lasciare Tripoli e la lunga serie di cooperazioni economiche sottoscritte con Gheddafi, mentre da sola dovrà affrontare l’ondata dei rifugiati che premono sulle coste di Lampedusa.



Tali eventi non potranno non avere un’eco anche nei Balcani, dove i Governi dalla stabilità già precaria rischiano di essere bersaglio di manifestazioni incendiarie, viste le implicazioni etnico-religiose sempre in gioco. Si ingrossano così i forum e i blog che fomentano odio, malcontenti, scontri, utilizzando ogni banale pretesto per accendere le micce degli scontri. Dall’aumento dei prezzi al congelamento delle pensioni, dalla costruzione di una Chiesa all’espropriazione di un terreno. Le zone calde nell’area balcanica sono tante, primo tra tutti il Sangiaccato che rivendica l’autonomia e maggiori diritti per l’etnia bosniaco-musulmana, seguito poi dalla Bosnia Erzegovina, polveriera in cui vengono trafficate troppe armi e troppo esplosivo, ed infine la Macedonia che non ha ancora risolto l’equilibrio interno macedone-albanese. I governi, in questa guerra silenziosa, non hanno strumenti per monitorare queste nuove realtà, in cui vi sono programmi specializzati volti ad innescare conflitti inter-etnici ed interreligiosi, tutto questo gestito in maniera trasnazionale. “I media non rappresentano più la libertà di stampa, ma sono diventati solo ed esclusivamente dei cartelli di disinformazione e di provocazioni, sono delle società private con degli interessi economici. La nuova “rivoluzione internettiana” serve unicamente a cambiare le zone di influenza e a mettere al potere governi-fantoccio ingovernabili – afferma Altamura -.L’Italia resta a guardare impassibile questo scenario paradossale, in cui sia la Russia che l’America o l’Inghilterra, e persino l’ultimo paese sperduto, possono infliggere ovunque un qualsiasi colpo.
Mappa presenza delle compagnie energetiche

Acqua: Berlino dà l'esempio

Fonte: ilribelle.com
>di Andrea Bertaglio
Il referendum popolare di domenica scorsa si è chiuso con una vittoria che ha sfiorato l’unanimità: il 98,2 per cento dei cittadini vuole che la Berliner Wasserbetriebe sia gestita esclusivamente dal Comune

Anche a Berlino l’acqua torna pubblica. A deciderlo una consultazione popolare che ha chiesto ai cittadini della capitale tedesca, domenica 13 febbraio, di dire “sì” o “no” alla proposta di togliere la gestione dell’acqua ai privati.
Se in Italia si deve ancora votare sulla questione della privatizzazione dei servizi idrici, e se in una città come Parigi è già stato deciso da parecchio tempo di renderli nuovamente pubblici, oggi anche Berlino ha deciso che non si possono più associare speculazioni e profitti ad un bene di primaria importanza come l’acqua. I berlinesi hanno infatti votato “sì” al referendum per l’annullamento della privatizzazione parziale della società di gestione dei servizi idrici. Una vittoria a dir poco schiacciante: su oltre 678.000 elettori, il 98,2%, ha votato a favore di un’inversione di marcia, rivendicando anche una maggiore trasparenza dei contratti.
«Un bene essenziale come l’acqua non può essere fonte di profitto, vogliamo che torni in mano pubblica», ha dichiarato il portavoce del Comitato promotore, Thomas Rodek. E così sarà. Quello del referendum berlinese è stato un trionfo dei sì: ne servivano almeno 616.571, e ne sono arrivati 665.713. Andreas Fuchs, il cassiere del comitato referendario, commenta: «Ci speravo, ma non me l’aspettavo più, vista la scarsa affluenza in mattinata». Ed aggiunge: «È la prova che si può fare molto anche con pochi mezzi». Pochi mezzi davvero, dato che il comitato disponeva di soli 12 mila euro per organizzare tutto: soldi ottenuti interamente da donazioni (mentre gli organizzatori del fallito referendum sulla religione a scuola di due anni fa avevano raccolto centinaia di migliaia di euro).
La richiesta riguardava la pubblicazione integrale del contratto con cui nel 1999 la capitale tedesca, cercando di fare cassa, decise di vendere alle società Rwe e Veolia il 49,9% dell’azienda dei servizi idrici comunali, la Berliner Wasserbetriebe. Un contratto di cui solo nel novembre del 2010 i promotori del referendum hanno ottenuto la pubblicazione da parte del municipio berlinese: 700 pagine che illustrano il processo di privatizzazione parziale. Un dossier che mostra come la città abbia garantito alti margini di guadagno alle due imprese interessate, Rwe e Veolia. Che, nell’arco di dieci anni, hanno incassato più utili dell’intera città di Berlino: 1,3 miliardi contro 696 milioni. Ora l’obiettivo del comitato referendario resta quello di riportare completamente la Berliner Wasserbetriebe in mani pubbliche. Evitando possibilmente di replicare quanto successo nella vicina Potsdam, dove, nonostante la società di gestione dei servizi idrici sia stata rimunicipalizzata dieci anni fa, i prezzi hanno continuato a salire. E a far pagare oggi un metro cubo d’acqua più che a Berlino (5,82 euro).
In una domenica compresa tra il 15 aprile ed il 15 giugno gli italiani si potranno esprimere sul quesito riguardante l’abrogazione del decreto Ronchi, col quale nel 2009 è stato sancito che il servizio idrico non potrà più essere gestito da società pubbliche, ma solamente affidato a società che sono o totalmente private, o possedute da privati per almeno il 40%. Il secondo quesito riguarda invece la cancellazione del “Codice dell’ambiente”, una norma che prevede una quota di profitto sulla tariffa per il servizio idrico, la cosiddetta “remunerazione del capitale investito”.
Secondo i detrattori italiani dei referendum sull’acqua “privatizzare non può che migliorare la qualità dei servizi”. Per i sostenitori del referendum di Berlino, invece, in seguito alla privatizzazione parziale dei servizi idrici comunali i prezzi dell’acqua sono aumentati del 35%, collocandosi fra i più alti di qualsiasi altra città tedesca. A Berlino un metro cubo d’acqua costa 5,12 euro, a Colonia 3,26. Teniamolo ben presente, quando questa primavera ci recheremo a votare. Ce lo ricorda anche Dorothea Härlin, del comitato referendario berlinese, che sottolinea l’importanza internazionale del successo registrato nelle urne il 13 febbraio, ricordando che «non soltanto i berlinesi, ma i cittadini di tutto il mondo si battono per l’acqua».

giovedì 3 marzo 2011

NEOBORBONICI E LEGHISTI

G.RUSSO: MONDOPERAIO,FEBBRAIO 2011.
C’è la tendenza, da parte di scrittori che chiameremo “sudisti”, a propugnare l’ idea di un Sud che sarebbe stato ricco, felice e quasi alla pari con il Nord, se non fosse stato rapinato delle sue risorse finanziarie e non fossero stati invece concentrati nel Nord gli investimenti per le industrie e le infrastrutture. Due libri particolarmente vanno segnalati, anche per il successo di pubblico che hanno avuto: Terroni di Pino Aprile e Il sangue del Sud di Giordano Bruno Guerri.
Nel primo si presenta l’Unità d’Italia come una conquista dell’Italia meridionale da parte del Nord contrassegnata da una vera e propria guerra civile durante la quale si ebbero interventi militari con repressioni feroci nei confronti delle popolazioni contadine. Il libro inizia con una frase che ha suscitato grandi polemiche:” Io non sapevo che i piemontesi fecero al Sud quello che i nazisti fecero a Marzabotto. Ma tante volte, per anni. E cancellarono per sempremolti paesi, in operazioni ‘anti-terrorismo’ come imarines in Iraq.Non sapevo che, nelle rappresaglie, si concessero libertà di stupro sulle donne meridionali, come nei Balcani durante il conflitto etnico”. E continua su questo tono. Guerri invece, pur proclamandosi “unitario”, sostiene che sono state taciute pagine vergognose che riguardavano repressioni e stragi avvenute tra il 1860 e il 1870 al fine di reprimere il fenomeno del brigantaggio.
Ad Aprile ha replicato duramente Aldo Cazzullo, osservando che l’esercito non era da definire “piemontese” ma italiano, ed inoltre che è indegno paragonare quelle azioni contro il brigantaggio alle rappresaglie naziste.Ad entrambi ha replicatoAngelo Panebianco, in un articolo di fondo del Corriere della Sera del 4 novembre 2010, il quale, dopo avere osservato che si è fatta attenzione soprattutto al fenomeno del leghismo, sostiene che si è trascurato quello, più silenzioso, del “secessionismo culturale del Sud”. Si chiede infatti che cos’altro sia “la rappresentazione del Risorgimento come uno stupro di gruppo ai danni del Mezzogiorno da parte di unNord violento e rapace”.Osserva che le puntigliose rivalutazioni del Regno delle Due Sicilie sembrano dimostrare che gran parte delle classi colte meridionali siano convinte di due cose: che se non ci fosse stata “la colonizzazione del Nord il Sud sarebbe ora qualcosa di simile alla Svizzera e all’Olanda”, e che le classi dirigenti del Sud non hanno responsabilità dei mali in cui il Mezzogiorno si dibatte.
Sembra quasi che ci sia un blocco sociale che unisce le classi dirigenti che hannomale amministrato a quelle colte che reagiscono nel modo esemplificato nel libro di Aprile. Panebianco osserva che il secessionismo culturale del Sud ha il fiato corto, perché non può tradursi in un secessionismo politico, e che “l’unità del paese e la democrazia nel Mezzogiorno rischiano di diventare incompatibili”. E aggiunge che continuare a considerare la storia dell’Italia unita come frutto di una “odiosa colonizzazione” rappresenta una forma di autoassoluzione, da sempre la maledizione del Mezzogiorno.

I rischi del revisionismo
In verità il divario traNord e Sud, almomento dell’Unità, era evidentissimo sia nelle infrastrutture, sia soprattutto nel dato dell’analfabetismo, doppio rispetto al Nord. C’era stata una diminuzione di tale divario nella fase iniziale della Cassa del Mezzogiorno, ma in seguito si verificò un arresto in coincidenza con la fine dell’intervento straordinario. Attualmente, come scrivono nel saggio Ma il cielo è sempre più su Luca Bianchi e Giuseppe Provenzano, autorevoli studiosi della Svimez, il confronto tra il Mezzogiorno e le altre 208 aree europee che versano in condizioni di sottosviluppo dimostra che il nostro Sud va sempre più arretrando: è scivolato infatti in dieci anni, tra il 1995 e il 2005, quasi in fondo alla graduatoria.
Oltre al revisionismo, che attraverso la denuncia della repressione crudele del brigantaggio e la tesi che il Sud sia stato trattato come una colonia da educare e sfruttare presenta il Risorgimento e l’Unità d’Italia come un danno per ilMezzogiorno, ci sono da segnalare le tesi di studiosi come Giorgio Ruffolo che, nel suo libro Un Paese troppo lungo sostiene che per trovare una soluzione della “questionemeridionale” bisogna spezzare nel Sud il nodo tra la classe politica e la criminalità organizzata, e che ciò può avvenire solo creando un vero e proprio Stato federale del Mezzogiorno. Ruffolo sostiene che questa visione sarebbe ispirata alle idee di Dorso e Salvemini. Essi, per la verità, parlavano di “autonomia” e non di uno Stato federale, che se si attuasse la proposta di Ruffolo sancirebbe una divisione tra uno Stato del Nord e uno del Sud. Non entriamo nel merito di questa proposta, che ci sembra abbastanza avventurosa, ma la citiamo per indicare come il bilancio della questionemeridionale sia strettamente connesso alle riflessioni sui rischi che corre l’unità nazionale alla vigilia del suo centocinquantesimo anniversario.
Come si spiega che, dopo 150 anni, emerga con tanta violenza polemica questa rivendicazione revisionista, una vera e propria frattura culturale? Si rinnega l’eredità del meridionalismo classico e si rimprovera agli storici di aver considerato l’Unità come un progresso rispetto al passato, e di ritenere che sia stata comunque un vantaggio anche per i meridionali. Per chi affronta oggi il tema c’è da domandarsi come mai si è giunti a questo tipo di considerazioni. Le ragioni sono due: nella coscienza dell’opinione pubblica la questione meridionale ormai è sinonimo di “questione criminale”. In secondo luogo l’emigrazione di centinaia dimigliaia dimeridionali dopo la fine della seconda guerra mondiale ha creato nel Nord un assorbimento dei “cafoni”, mentre ormai l’invasione di extracomunitari è diventato il tema più importante.
La domanda “Esiste ancora una questione meridionale?” si pone in un momento in cui sembra che essa si riduca, per lo scandalo della “monnezza” a Napoli e le ramificazioni delle organizzazioni criminali al Nord e all’estero, a questione criminale. Non da oggi infatti questo rischio si è manifestato nell’opinione pubblica e nella stampa. Il sociologo Ilvo Diamanti ha scritto recentemente che è sbagliato sostenere che, dopo la fine dell’intervento straordinario sancita nel 1992, tutto sia rimasto immobile. Al contrario, nel Sud c’è stata in quegli anni una crescita economica e si è allargata la partecipazione civica, sicché ci “sono aree nel Sud che ormai per dinamismo e modello di sviluppo sono come alcune del Nord Est”. E conclude che la crisi di civismo, cioè di senso civico e delle istituzioni, colpisce pesantemente il Sud, ma il Nord non ne è immune: è una crisi che riguarda tutta l’Italia, è una questione nazionale.

Una questione nazionale
Infatti la questionemeridionale era considerata dai grandi studiosi meridionalisti una questione nazionale. Nel secondo dopoguerra la classe politica e gli intellettuali meridionali, con la partecipazione e l’intervento di esponenti dell’Italia del Nord (da Luigi Einaudi a Ezio Vanoni, da Alcide De Gasperi - promotore della Cassa delMezzogiorno - adAntonio Segni con la riforma agraria) erano convinti che occorresse risolvere la questione meridionale. Essi erano ispirati dalla grande tradizione del pensiero meridionalista di Fortunato, Salvemini, Dorso e Sturzo, la quale trovò i suoi continuatori in Pasquale Saraceno, in Francesco Compagna con la rivista Nord e Sud a Napoli, ed inManlio RossiDoria artefice della riforma agraria.Aquest’opera non fu estraneo il pensieromeridionalista della sinistra, quello degli eredi di Gramsci ma anche di Croce, come Giorgio Amendola, Giorgio Napolitano, Gerardo Chiaromonte, fondatori della rivista Cronache Meridionali. Ma fu soprattutto Francesco Compagna che dette un respiro culturale di livello europeo alla sua rivista, con collaboratori quali Rosario Romeo e Vittorio de Caprariis, e con il suo rapporto di studioso con i geografi francesi più avanzati. Egli collocò con grande anticipo il Mezzogiorno in un contesto europeo, come dimostra uno dei suoi testi classici, Mezzogiorno d’Europa, pubblicato nel marzo del 1958 e che oggi varrebbe la pena di rileggere.
Il sociologo Franco Cassano sostiene che il rilievo dato alla drammatica situazione del Napoletano fa correre il rischio di considerare il Sud irrecuperabile ai valori della modernità europea: “La Campania disperata e feroce di Saviano appare la conferma della inevitabile sconfitta di ogni speranza di cambiamento di fronte a un Sud irremovibile e destinato a perdersi”. E aggiunge che non tutto il Sud è dominato da caratteristiche negative: assumere Napoli quale rappresentazione tipica del Sud può creare gravi errori perché non si possono ricondurre al medesimo quadro la Puglia, la Lucania e una parte settentrionale della Calabria. Si tratta di situazioni differenti che dimostrano che è sbagliato restare fermi all’immagine di un Sud omogeneo tutto ai livelli più bassi. Egli sottolinea quella che pure a noi sembra essere l’unilateralità dell’opinione del sociologo americano Robert Putnam, secondo il quale il sottosviluppo del Mezzogiorno dipende dalla sua mancanza di senso civico rispetto al Nord. Si tratta di un giudizio parziale se si tiene presente per esempio il fenomeno del successo della Lega nel Nord. La tesi di Cassano è che la condizione del Mezzogiorno è il frutto della storica emarginazione dei paesi del Mediterraneo, e che quindi solo rilanciando una politica mediterranea di sviluppo si possono affrontare i nuovi aspetti della questione meridionale.
Si tratta di pensare al ruolo di un Mezzogiorno che possa avere un peso politico nella costruzione di una nuova regione dell’Europa allargata a sud. Il Mezzogiorno deve essere considerato nella comune appartenenza mediterranea, ma c’è da chiedersi come si possa dare un ruolo al Mezzogiorno nel Mediterraneo se non si risolve il problema del divario con il resto dell’Italia e dell’Europa e non si cerca di creare un Mezzogiorno moderno, capace di essere un modello. Il Sud non può essere riassunto in una definizione unica e perciò “abolire il mezzogiorno”, come propose anni fa l’economista Gianfranco Viesti, è poco credibile. Del resto lo stesso Viesti, anche se ha intitolato in modo così provocatorio il suo libro, ha indicato quale dovrebbe essere il ruolo delle classi dirigenti meridionali, sottolineando che il Sud dispone “ben più di quanto si pensi di risorse immateriali legate alla sue culture e alla ricchezza delle sue tradizioni”, e che la più grave sottoutilizzazione di risorse riguarda gli stessi meridionali e cioè il capitale umano, soprattutto quello dei giovani diplomati e laureati.

La risorsa dei cervelli
Uno degli errori della politica meridionalista è l’aver trascurato il fatto che nel Sud c’è la maggiore risorsa dell’Italia, quella dei cervelli, che però emigrano nel Nord come un tempo emigravano i braccianti. La disoccupazione intellettuale giovanile raggiunge in certe zone, come la Calabria, circa il 40%, e rappresenta il dissanguamento del Mezzogiorno. Secondo i dati Istat sulle migrazioni interne tra il 1993 e il 2002 l’emigrazione dal Sud verso il Nord, che si era pressoché annullata alla metà degli anni ’80, ha ripreso a crescere raggiungendo un livello vicino a quello degli anni ’50. E’di nuovo fuga dal Mezzogiorno, solo che è di una natura diversa da quella del dopoguerra: oggi si tratta di meridionali tra i venti e i trentacinque anni con elevati livelli d’istruzione. Le regioni del Mezzogiorno, osserva il sociologo Luciano Gallino, finanziano lo sviluppo del Nord in quanto l’istruzione dei giovani rappresenta un investimento di parecchi miliardi di euro all’anno che vengono trasferiti dal Sud al Nord. Occorrerebbe riflettere su questo fenomeno paradossale che i politici continuano a ignorare.
Oltre ai cervelli, stanno abbandonando il Sud anche lemedie imprese che si erano affermate per capacità d’innovazione: per fare gli esempi più noti, quelle di Barletta in Puglia, di Matera in Basilicata, diMarcianise e San Marco Evangelista in Campania, nel settore delle scarpe, delle calzature e del divano. Molte di esse si stanno trasferendo in Oriente e nell’Europa dell’Est. Le prospettive future del Mezzogiorno s’inquadrano nelle grandi trasformazioni economiche, sociali, scientifiche, tecnologiche che si stanno verificando nelmondo. Bisogna uscire da certi schemi: occorre realizzare anche psicologicamente la fine del mondo contadino e capire che ilMezzogiorno è afflitto oggi dai problemi di una società urbana e soffre di un urbanesimomalato. La disoccupazione giovanile e il lavoro nero diffusissimo nelMezzogiorno sono i temi da approfondire. Il vecchiomeridionalismo, che era stato impostato nel dopoguerra attraverso la Cassa del Mezzogiorno e l’intervento straordinario, partiva dal concetto di uno Stato forte, che distribuiva le risorse dal centro con meccanismi burocratici. I primi dieci, quindici anni della Cassa per il Mezzogiorno furono positivi, come scriveva nella rivista Nord e Sud Francesco Compagna.
La degenerazione della Cassa fu provocata da un sistema che non ha riguardato solo ilMezzogiorno. Uno degli errori che si commettono è infatti quello di isolare le vicende del Mezzogiorno dalla politica nazionale. Se nel Mezzogiorno sono successe cose negative è accaduto perchè il sistema politico, economico e sociale italiano si era corrotto e lo Stato non ha più svolto il ruolo per il quale era stato concepito l’intervento straordinario,ma si usavano le istituzioni per gli illeciti arricchimenti rivelati dalla crisi di Tangentopoli, un periodo della nostra storia nella quale anche il Mezzogiorno è stato profondamente coinvolto. I giovani meridionali che nel dopoguerra andavano ad arruolarsi nelle catene di montaggio della Fiat non sono più braccianti analfabeti, ma partecipano della culturamoderna e di tutte le opportunità offerte dalla rivoluzione tecnologica. Se si vuole guardare in modo costruttivo a un Sud così diverso dal passato bisogna però rimuovere l’ostacolo della vecchia mentalità, che continua a considerare il Mezzogiorno come qualcosa di “passivo” su cui intervenire dall’alto con gli stessimetodi e a volte con gli stessi protagonisti del passato.Ne è un esempio clamoroso l’esperienza fallimentare dell’agenzia “Sviluppo Italia”, nata nel 1999 per attrarre investimenti nel Mezzogiorno, e che ha gestito i fondi pubblici come nel passato.

Contadini e luigini
Oggi ci sono due linee che si confrontano: quella che vuole continuare nella vecchia strada che ha dimostrato di non essere più in grado di affrontare e risolvere i problemi dell’Italia meridionale; e quella di chi invece vuole imboccare strade nuove in corrispondenza dei nuovi bisogni e dei profondi mutamenti avvenuti in questi anni. Le classi dirigenti meridionali devono uscire da visioni localistiche o provinciali, e tornare a considerare la questione meridionale come un aspetto della questione italiana, che oggi non può non essere una questione europea. Uno dei maggiori studiosi del Mezzogiorno, lo storico Giuseppe Galasso, ha dimostrato che lo sviluppo economico dell’Italia negli ultimi trent’anni del ‘900 ha trasformato la questione meridionale da “agraria” - consistente nelle vicende della lotta per la terra e nella riforma agraria - in un problema che riguarda le città meridionali e le esigenze connesse alla creazione di servizi e all’uso delle tecnologie più avanzate, come quello della “banda larga”. A questo proposito, nell’introduzione al libro Una bussola per il Sud scrivevo: “Non esiste più una questione meridionale nei vecchi termini, non esistono più ‘contadini’ e ‘luigini’, non esistono più deficienze d’informazione, non esiste quindi più quel Mezzogiorno arretrato ancora erede delle miserie ottocentesche e delle conseguenze di un’unione del paese avvenuta con gravi squilibri. Esiste invece un Mezzogiorno in cui lo sviluppo disordinato, l’emigrazione e l’urbanesimo malato hanno creato molti problemi che possono essere risolti solo se s’incentivano le energie positive e soprattutto se nelle mutate condizioni i giovani possono trovare la loro possibilità di esprimersi”.
L’economista Nicola Rossi ha affermato che nel secondo dopoguerra ci fu una grande battaglia culturale, un’azione intellettuale che divenne una concreta azione politica e amministrativa, perché c’era l’idea che risolvere i problemi del Sud serviva non solo al Sud ma a tutto il paese. C’era dietro questa azione politica un’idea dell’Italia. Bisogna che economisti, sociologi, politici, intellettuali riprendano questa battaglia culturale e s’impegnino a riflettere sui nuovi aspetti della questione meridionale per capire anche perché dagli anni Ottanta in poi il divario, che a metà del Novecento era del 50%rispetto al Nord, adesso è del 55%. Quali sono le novità? Le città meridionali sono cresciute in maniera abnorme, con periferie dove non ci sono i vantaggi economici delle città delNord,ma dove imali della societàmoderne, criminalità e droga, possono svilupparsi senza controllo.Abbiamo quasi santificato i pentiti dimafia nella lotta alla criminalità.Nessuno si è posto però il problema di come aiutare le piccole emedie imprese del Sud a liberarsi dall’influenza della criminalità organizzata che si èmodernizzata, e di aiutarle a convertirsi alla legalità con un rinnovamento del sistema del credito, che dovrebbe essere uno dei punti di forza per una nuova politica per ilMezzogiorno. Su questo tema si è svolto in giugno a Napoli un convegno all’Istituto Italiano degli studi filosofici. L’economista Piero Barucci, con la relazioneMezzogiorno e intermediazione impropria, e il magistrato Pierluigi Vigna, con la relazione Il mercato sono loro, hanno affrontato il problema della cosiddetta “intermediazione impropria” rappresentata dall’economia illegale. E’ statamessa in rilievo la grande espansione dell’economia criminale e di quella illegale in genere, che si organizza con “le tecniche tipiche del capitalismo più aggressivo” e si sposta ormai verso orizzonti operativi e competitivi di carattere mondiale.

Investire nell’ordine pubblico
Se si fa un bilancio dell’industrializzazione delMezzogiorno ci si rende conto di aver trascurato lo sviluppo del turismo e dell’agricoltura, e nello stesso tempo di non aver sfruttato le prospettive di un ambiente naturale ancora fortunatamente intatto soprattutto nelle zone interne salvate dalla cementificazione. La pubblica amministrazione nelle Regioni, nelle Province e nei Comuni più che corrotta è spesso inefficiente. Come risanarla? Il federalismo è una formula dietro cui c’è tutto e il contrario di tutto. Un nuovo meridionalismo dovrebbe prendere posizioni distinte dalle teorie federaliste sostenute e vagheggiate dalla Lega di Bossi che possono portare ad una crisi istituzionale dannosa non solo per il Mezzogiorno. Per l’utilizzo dei finanziamenti europei occorre fornire gli strumenti ai Comuni meridionali affinché i progetti e le procedure siano efficaci. Ed è indispensabile rafforzare la presenza delle forze di polizia e dei carabinieri nelle zone della camorra, della mafia e della ndrangheta. Investire nell’ordine pubblico è più utile che investire nelle “grandi opere”, che restano spesso allo stato di progetti costosi come il caso del Ponte sullo stretto di Messina.
Gli altri aspetti della questionemeridionale riguardano sia lemoderne tecnologie da introdurre nei servizi e nelle comunicazione sia un piano per valorizzare il patrimonio deimonumenti storici e dei siti archeologici del Sud, ancora sottovalutato. Si veda ad esempio il caso dei crolli a Pompei, causati dalla mancanza di un’adeguata manutenzione e dalla carenza di fondi, oltre che da antiche piaghe come l’assenza di una corretta gestione: continuano infatti a prevalere la distorsione degli investimenti e gli abusi che riguardano la gestione, dai custodi, alle guide, ai servizi offerti ai turisti.
L’idea di un Sud arretrato e condannato irrimediabilmente a questa sua condizione è quindi sbagliata. Tutti vedono come il benessere si sia esteso, ma anche come sono rimasti i difetti storici della borghesia meridionale denunciati da Salvemini e da Dorso: familismo e mancanza di senso civico. Quanto alle Regioni meridionali, tranne pochissime eccezioni come la Basilicata, hanno un bilancio fallimentare e si sono trasformate in doppioni di quello Stato di cui dovevano essere un’alternativa. Se il federalismo della Lega dovesse essere attuato, il divario con il Nord potrebbe aggravarsi e arrestare il processo di rinnovamento della classe dirigente. Per ilMezzogiorno le esigenze principali sono sopratutto quelle dell’efficienza della pubblica amministrazione per avere la capacità di autogoverno e utilizzare gli strumenti giuridici e finanziari che lo collegano all’Europa. La classe politica italiana e soprattutto quellameridionale dovrebbe avere la consapevolezza che ilMezzogiorno si trova tra due alternative: o diventare l’avanguardia dell’Europa nel Mediterraneo, il ponte per lo sviluppo di regioni ancora arretrate come l’Andalusia, le zone greche e portoghesi e i paesi del Medio Oriente affacciati nel Mediterraneo; o essere assimilato a queste regioni e rimanere in quella situazione di sottosviluppo che faceva notare a un viaggiatore francese ai primi dell’Ottocento: “L’Europa finisce a Napoli e finisce male, la Calabria, la Sicilia e tutto il resto appartengono all’Africa”.
Oggi l’idea di un Sud come propagginemoderna dell’Europa nel Mediterraneo è più astratta che reale, ma è l’unica alla quale si dovrebbe guardare come obiettivo di una politica lungimirante. Ecco il grande compito che toccherebbe alle classi dirigenti meridionali se fossero coscienti di queste novità e di questa esigenza che profetizzò un grande uomo politico ed economista meridionale, Francesco Saverio Nitti, il quale intuì il nesso tra Mezzogiorno ed Europa. Del resto è chiaro che solo grazie al rapporto con l’Europa si può sfuggire alle tentazioni familistiche e clientelari che sopravvivono ancora insieme a nostalgie neoborboniche. Il destino delMezzogiorno è l’Europa, ma esige un’alleanza come quella che si verificò nel secondo dopoguerra tra le parti più avanzate e moderne della classe dirigente del Nord e di quella meridionale, quando si fondò la Cassa per il Mezzogiorno e si decise quell’intervento straordinario per il quale si batterono insieme il lombardo Pasquale Saraceno e il napoletano Francesco Compagna.

Il “Piano” del governo
Le classi dirigenti meridionali devono rendersi conto che non si tratta per il Sud di problemi strettamente economici, ma di una politica che riguarda il modello di Stato e il patto nazionale fra i cittadini. Solo se le classi dirigenti meridionali saranno capaci di migliorare l’amministrazione pubblica, di rendere efficaci le istituzioni, di creare un sistema bancario per ilMezzogiorno, potranno diventare protagoniste e approfittare delle grandi possibilità che offre l’Europa. Il governo Berlusconi aveva annunziato un “Piano nazionale per il Mezzogiorno” che individuava otto “grandi priorità”, di cui tre aree “strategiche di sviluppo” e cinque aree “strategiche di carattere orizzontale”. In particolare le tre priorità strategiche di sviluppo sono: infrastrutture, ambiente e beni pubblici; competenze ed istruzione; innovazione, ricerca e competitività. Le cinque priorità strategiche di carattere orizzontale riguardano: sicurezza e legalità; certezza dei diritti e delle regole; pubblica amministrazione più trasparente ed efficiente; Banca delMezzogiorno; sostegno mirato e veloce per le imprese, il lavoro e l’agricoltura. Il Piano rischia però di rispolverare strumenti che già nel passato hanno dimostrato di non esser funzionali agli scopi. Diceva Luigi Sturzo: “Il risorgimentomeridionale non è opera momentanea e di pochi anni o che venga fuori dalla semplice volontà di un governo, è opera di lunga, vasta, salda cooperazione nazionale e che come spinta, orientamento, convinzione, parta dagli stessi meridionali”. Ci vorrebbe un nuovo meridionalismo dotato di un progetto politico e di un programma economico e sociale al quale, come negli anni Cinquanta, aderiscano con entusiasmo anche le intelligenze e l’opinione pubblica del Nord, che sembrano invece sottoposte alle rivendicazioni antimeridionali della Lega di Bossi.

venerdì 18 febbraio 2011

MERITOCRAZIA E GIUSTIZIA SOCIALE.

l.benadusi . Mondoperaio, gennaio 2011

In un paese travagliato da costanti lacerazioni politiche ed ideologiche quale è l’Italia l’ideale della meritocrazia, pur così lontano dalla realtà dei pensieri e dei comportamenti degli italiani e forse proprio perché così lontano, sembra assurgere ad un ruolo di collante bipartisan, qualcosa di cui o si fa una bandiera (per taluni politici o consiglieri di politici la propria bandiera), o per lo meno un argomento assolutamente indisputabile (beninteso sul piano delle retoriche, la pratica essendo altra cosa). Negli altri paesi europei il credo della meritocrazia è celebrato in un modo un poco meno ossessivo, ma gode pur sempre di crescenti consensi, correlato com’è alla erosione del vecchio Welfare (nelle versioni nordica e continentale, per riferirci alle note tipologie di Esping-Andersen), ed all’esaltazione - alquanto scalfita sì, ma non interrotta dall’avvento della crisi globale - del modello sociale americano. Ciò che sembra ancora distinguere la sinistra rispetto alla destra, pure nel loro comune ossequio alla religione del merito, è il rapporto da stabilire fra questo nuovo valore e la tradizionale religione dell’eguaglianza. Come osservava Bobbio, il vero discrimine “filosofico” fra destra e sinistra sta proprio su questo punto. Infatti, la “Terza via” blairiana – pensiamo al volume The New Egalitarians edito qualche anno fa dal suo principale teorico, Anthony Giddens – riprendendo e spingendo avanti orientamenti già emersi tra i laburisti inglesi nella seconda metà del secolo scorso, si è posta all’avanguardia di una svolta meritocratica all’interno dell’intera sinistra europea, non senza però sottolineare che essa andava intesa come una riformulazione e non come l’abbandono della vecchia e cara idea dell’eguaglianza. In realtà il principio meritocratico, a differenza del vecchio regime aristocratico basato sull’ereditarietà, si presenta indissolubilmente intrecciato con una delle diverse possibili declinazioni dell’idea di eguaglianza, le eguali opportunità. Una declinazione che postula l’azzeramento delle disuguaglianze sociali nel passaggio da una generazione all’altra, un riallineamento delle opportunità come presupposto imprescindibile per una gara che si giochi unicamente sul merito, e che grazie a ciò finisca con un’equa produzione, piuttosto che con un’iniqua riproduzione, delle disuguaglianze. Di qui la centralità dell’educazione, vera e propria culla della società meritocratica, in quanto solo dopo che la scuola abbia annullato l’impatto del background socio-familiare sulle competenze delle nuove generazioni queste possono entrare in una serie di competizioni meritocratiche – innanzitutto nel lavoro - facendovi valere unicamente risorse personali, che vengono dai più – ma, come si vedrà, di ciò si discute – compendiate nel binomio talento (naturale) + impegno (o sforzo). Su questa interpretazione si è registrato un consenso pressoché universale nel mondo occidentale, rilevabile perfino fra contesti culturalmente e politicamente distanti come, ad esempio, la Francia radicale e statalista di Durkheim e l’America liberale e individualista di Jefferson o di Conant. Piuttosto, la differenza fra Europa e Stati Uniti passa sul grado d’importanza, fino all’esclusività, che si accorda al principio di eguaglianza delle opportunità nell’ambito delle rispettive concezioni (dominanti) della giustizia e sul ruolo assegnato all’educazione. Negli Stati Uniti l’eguaglianza delle opportunità educative e la mobilità sociale meritocratica hanno rappresentato l’epicentro del progetto di costruzione di una società giusta. In Europa, invece, l’idea di giustizia si è connotata, ovviamente per la sinistra che se n’è fatta portatrice, in modo più decisamente egualitario, dal momento che l’eguaglianza è stata intesa come (relativamente) eguali condizioni da conseguire grazie alle politiche del Welfare ed all’imposta progressiva sul reddito, e non soltanto come eguali opportunità da assicurare a tutte le classi ed i ceti sociali essenzialmente per il tramite dell’educazione. La novità dell’oggi è in una sorta di inversione di tendenza: negli Stati Uniti con la politica di Obama – riforma sanitaria, limiti al potere delle banche e delle finanziarie, interventi contro la disoccupazione di massa – cominciano ad entrare in campo orientamenti e strumenti di policy tipici del contesto europeo, mentre in Europa sull’onda della crisi del Welfare tradizionale sta prendendo corpo un indirizzo di policy di tipo “americano”, che pone in primo piano l’istanza della meritocrazia (per la sinistra nella sua versione originaria, quindi con una connotazione egualitaria, per la destra in una versione esclusivamente procedurale che la avvicina a quella che Rawls, nella sua tipologia delle concezioni di giustizia, definiva “competizione naturale”, e che potremmo anche etichettare come una forma di darwinismo sociale).

L’individualismo asociologico
In quest’ultima accezione meritocrazia non significa infatti eguaglianza delle opportunità e mobilità sociale bensì semplicemente selezione dei migliori e perseguimento dell’eccellenza nei vari campi, dall’istruzione al lavoro e all’economia, grazie alla messa in opera di meccanismi concorrenziali ma a prescindere dalla correzione iniziale invocata dai fautori della parità dei punti di partenza. Accompagna l’avvento di questa nuova visione della meritocrazia, apertamente disegualitaria, e ne cementa l’alleanza con l’ideologia neo-liberista, un individualismo asociologico (del genere, per dirla con la Thatcher, “ non so che sia la cosa che chiamano società”) che porta con sé una sopravvalutazione dell’autonomia e della responsabilità dell’individuo insieme ad una sottovalutazione, o addirittura un misconoscimento, dei condizionamenti derivanti dai contesti entro i quali essi si trovano ad agire. Esattamente l’opposto del sociologismo determinista e deresponsabilizzante tanto diffuso negli anni post-68. Primi esempi di traduzione nella policy dell’istruzione di tale nuova visione della meritocrazia sono rinvenibili in alcune leggi o progetti di legge di governi europei – un recente decreto della Merkel ed il ddl di riforma universitaria della Gelmini – che non solo fanno del merito, come può essere considerato ragionevole (senza peraltro dimenticare che la Costituzione italiana parla di “meritevoli, anche se privi dimezzi”), il requisito per la concessione di premi agli studenti, ma negano ogni rilievo al bisogno anche solo come criterio per commisurarne l’ammontare. Altri esempi, questa volta concernenti i premi diretti non agli individui ma alle istituzioni, sono la mancata presa in esame, fra i criteri della valutazione alla base dell’allocazione delle risorse premiali, di imprescindibili fattori di contesto, quali la composizione della popolazione studentesca. Accade così che una scuola o un’università frequentata da studenti di origine sociale medio- bassa, con precedenti scolastici meno brillanti e magari con situazioni miste di studio e lavoro venga penalizzata solo per effetto della sua composizione, anche se i risultati ottenuti siano migliori di quelli conseguiti da istituzioni apparentemente più efficienti, ma in realtà solo più prestigiose grazie alle loro capacità di scremare i flussi in entrata (cream skimming). Lasciamo però da parte quest’ultima versione della meritocrazia, decisamente disegualitaria, e concentriamoci invece sul dilemma fra le due eguaglianze - eguaglianza delle opportunità ed eguaglianza delle condizioni - cioè tra il modello sociale tradizionale dell’Europa e il modello tradizionale americano, che è poi il vero dilemma davanti al quale si trovano, su ambedue le sponde dell’oceano, le correnti di pensiero e le forze politiche della sinistra riformista. Vi è anzitutto da notare che mentre l’eguaglianza delle opportunità, di stampo meritocratico, sembra godere in Europa di sempre maggiori consensi e rappresentare, insieme al Welfare attivo e alle politiche di empowerment, la nuova frontiera del riformismo di sinistra, sono apparsi di recente in Francia due libri, entrambi di sociologi (M.Duru-Bellat, Le Mérite contre la justice, Presses de Sciences-Po, Paris, 2009 e F.Dubet, Les places et les chances, Seuil, Paris, 2010), che conducono una critica serrata ed assai bene argomentata tanto della meritocrazia quanto dell’eguaglianza delle opportunità. Essi riprendono, ampliano ed aggiornano un indirizzo critico avviato più di cinquanta anni fa da un altro sociologo, questa volta inglese, con un gustoso e provocatorio libretto (M.Young, The Rise of Meritocracy, Transaction Publisher United, New York, 1958), nel quale si narrava l’ipotetica storia di una comunità dove a seguito di una rivoluzione si era insediato un rigoroso regime di meritocrazia egualitaria che dopo gli entusiasmi iniziali aveva provocato fortissime tensioni sociali culminate nel suo cruento abbattimento. Tuttavia,malgrado l’interesse suscitato dal libretto anche sul piano politico (perché l’autore – allora giovane intellettuale militante nel partito laburista – intendeva mettere in guardia il suo partito contro l’acritica adesione a questa nuova ideologia), il concetto di eguaglianza delle opportunità ha continuato fino ad oggi a rappresentare per la sociologia un indiscusso (ancorché spesso implicito) punto di riferimento normativo ed una sorta di tropismo della ricerca empirica in campi quali l’educazione, il lavoro, la mobilità sociale, e più di recente le relazioni di genere.

Nessun merito è meritato
Come si articola e su che cosa si fondano le critiche avanzate dagli autori dei due libri appena citati? Cominciamo col notare che esse appaiono largamente convergenti, e soprattutto nel volume della Duru- Bellat,ma anche in quello di Dubet, sono corredate e supportate dai risultati di un gran numero di indagini effettuate in Francia e in altri paesi. Vediamone gli argomenti più salienti. Innanzitutto ci si domanda se la meritocrazia possa essere davvero giudicata un ordinamento sociale rispondente a giustizia. Riaffiora qui il noto argomento di Rawls secondo cui, muovendo dal principio che nessuno meriti di essere né premiato né punito se non per qualcosa di cui porti la responsabilità, gli esiti della “lotteria naturale” non sono da considerarsi più giusti di quelli della “lotteria sociale”. Se nessun merito, nel senso di talento, è davvero “meritato”, combattere le diseguaglianze in termini di risorse (o dei rawlsiani “beni primari”) generate dalla lotteria sociale applicando la regola dell’eguaglianza delle opportunità non basta, sebbene la regola nei suoi limiti venga riconosciuta come una regola giusta. Le diseguaglianze, tutte le diseguaglianze, vanno giudicate eticamente accettabili solo a patto che fungano da incentivo per il conseguimento di altri obiettivi di giustizia. Obiettivi che come è noto nella teoria di Rawls (non così in altre, ad esempio nell’utilitarismo dove la giustizia è fatta coincidere con la massima utilità aggregata) si identificano nel massimo incremento delle risorse a disposizione dei soggetti più svantaggiati. Inoltre – e ci troviamo qui su una linea già battuta da molti nel fitto dibattito filosofico sviluppatosi da una quarantina di anni su questo tema – assolutizzare la norma dell’indipendenza dello status sociale dei figli rispetto a quello dei genitori comporterebbe (ne è tuttora una dimostrazione esemplare quanto prefigurato in proposito nella Repubblica di Platone) un vulnus per la libertà della famiglia e per il suo ruolo di centro di scambi affettivi e comportamenti solidaristici, effetto che pochi sarebbero pronti a riconoscere come giusto. Annullare l’impatto del background socio-familiare richiederebbe poi un grado di interventismo statale che di nuovo pochi sarebbero inclini a riconoscere come giusto e compatibile con il funzionamento di un ordinamento sociale e politico di tipo liberale. In più si pongono complicati problemi di misurabilità. La distinzione tra eredità genetica ed eredità sociale dell’intelligenza, cardine della teoria normativa dell’eguaglianza delle opportunità, rimanda ad un momento zero, un punto di partenza, nel quale le diseguaglianze rinvenibili sarebbero esclusivamente naturali, non essendosi ancora dispiegata l’influenza dei fattori socio-familiari. E’ a quel punto che le diseguaglianze andrebbero bloccate ovvero riallineate attraverso interventi educativi ed occupazionali ex post di tipo compensativo. Obietta Duru-Bellat: rintracciare il punto ‘0’ ed operazionalizzare l’una e/o l’altra delle due strategie risulta praticamente impossibile, dato l’intreccio esistente fin dalla nascita, e addirittura già nella fase della gestazione, fra natura e cultura, fattori biologici e fattori sociali. Anzi, l’intreccio risulta ancora più complesso e difficilmente districabile perché involge, oltre ai talenti geneticamente e socialmente ereditati, anche l’uso che il soggetto fa ed impara a fare dei suoi talenti, cioè quella componente di agency non determinista che la teoria chiama “sforzo” o “impegno”. Se si dovesse pensare, come l’autrice mostra di fare, che il merito allo stato puro ed il punto di partenza sono concetti irrimediabilmente astratti e inverificabili, la teoria della meritocrazia egualitaria non sarebbe in grado di offrire alcun parametro idoneo a misurare le distanze fra i suoi principi e la realtà.

La casualità dei destini
Per la verità mi pare giusto rilevare che una soluzione di questo problema la teoria in effetti la offra compiendo un’operazione di drastica riduzione della complessità: assumere che le macro-diseguaglianze fra categorie – le classi, gli strati, i generi, le etnie, ecc. – abbiano le loro radici nel sociale mentre le micro-diseguaglianze – inter-individuali o fra gruppi e situazioni di minore rilievo – possano invece avere anche delle determinanti genetiche ovvero essere riconducibili alla sfera dell’impegno e delle scelte soggettive. Quando si accetti tale semplificazione, si può convenire che eguagliare le opportunità significa abolire o almeno ridurre le prime lasciando libero gioco alle seconde, da rubricare a questo punto non tanto come diseguaglianze quanto come differenze. E si può disporre così di metodologie statistiche, quelle da tempo usate da sociologi ed economisti, in grado di misurare la conformità delle situazioni empiriche al modello. Ci si deve però porre un’altra domanda: riconosciuto che sia giusto contrastare l’influenza sul successo o l’insuccesso degli individui dell’origine sociale – o di altre appartenenze categoriali quali quelle prima menzionate – le diseguaglianze residue sarebbero davvero ascrivibili ai soli talenti naturali o all’impegno ed alle libere scelte personali, e quindi da considerarsi legittime, ovvero potrebbero dipendere da altri fattori anche essi di natura sociale, o da mere casualità, e pertanto non legittimabili in base ai criteri del merito e delle opportunità? Due esempi fra i tanti possibili: il capitare in una scuola o in una classe sbagliata, oppure l’aver scelto un mestiere che nel tempo entri in crisi per cambiamenti del contesto economico imprevedibili al momento della scelta. Perché i principi delle eguali opportunità e della meritocrazia dovrebbero proteggere l’individuo dalle conseguenze negative di una nascita sfortunata e disinteressarsi di tutta una serie di circostanze egualmente sfortunate, molte delle quali sono direttamente o indirettamente imputabili all’azione della collettività e perfino a ben determinate politiche pubbliche? Ricorderò in proposito la lezione di Von Hayek, un grande economista liberale, un classico della teoria del mercato. Vale fra l’altro la pena di farlo dopo che due autorevoli economisti di orientamento neo-liberista come Giavazzi ed Alesina, in un provocatorio saggio dal titolo Il mercato è di sinistra pubblicato pochi anni fa, hanno ribadito la tesi che il libero mercato va a braccetto della meritocrazia perché premia il merito delle persone e delle organizzazioni. VonHayek invece, svariate decine di anni fa, ebbe a confutare con lucide argomentazioni l’idea di una relazione intrinseca fra merito e mercato, cioè fra etica ed economia, criticando la meritocrazia proprio per la sua pretesa di imporre al mercato regole esterne che ne avrebbero condizionato la libertà e tradito la funzione.

Il rischio dell’elitismo
Un’altra obiezione avanzata da Dubet già nel suo precedente libro, L’Ecole des chances. Qu’est-ce qu’une école juste?, è che la meritocrazia, in generale e pure nella sua versione egualitaria di cui stiamo trattando, rivela una marcata impronta di elitismo, preoccupandosi di ciò che accade negli strati più elevati della società e disinteressandosi della sorte degli strati inferiori: “C’est toujours dans le sphères les plus élevées de la societé que l’on mesure l’effectivité de l’égalité des chances” (Dubet, Les places et les chances, p.75). E’ certo auspicabile, prosegue l’autore, che i figli dei poveri formino il 15%degli effettivi delle Grandes Ecoles, perché compongono il 15% della società, ma non è sicuro che questo cambi granché nella società francese, dal momento che i poveri sono milioni mentre gli allievi delle Grandes Ecoles sono soltanto centinaia. “Vinca il migliore” è la parola d’ordine della meritocrazia, cui segue però implicitamente un crudele “guai ai vinti”. Ma oltre ai dubbi sollevati sul terreno della giustizia, altri ne sono messi in campo da Dubet eDuru-Bellat, sulla scia del ricordato libretto di Young, riguardanti la desiderabilità sia per l’individuo che per la società di un regime rigorosamente meritocratico. Non si contano le ricerche empiriche che hanno messo in evidenza, per usare le parole di altri due autori citati nel libro della Duru-Bellat, le “malattie dell’eccellenza”, cioè i guasti nella qualità della vita, nell’equilibrio psicologico e nella stessa salute fisica delle persone prodotti da società iper-competitive e fortemente disegualitarie. Società dove vi è sempre una gara da affrontare e, come diceva Eduardo De Filippo, “gli esami non finiscono mai”. In un contesto meritocratico, o presunto tale, i perdenti non hanno da imputare ad altro o ad altri se non a se stessi, al proprio “demerito”, le sconfitte subite, con tutti i costi psicologici e sociali che ne derivano. Non stupisce allora – lo mostrano anche qui una serie di indagini - che il principio della meritocrazia, popolare fra i vincenti, lo sia assai meno negli strati sociali inferiori, più inclini a parteggiare per l’ideale dell’eguaglianza tradizionalmente intesa. La preminenza del merito nel discorso sulla giustizia può così diventare fonte di problemi sul terreno della coesione sociale, problemi che peraltro chiamano in causa un ulteriore aspetto critico della teoria: il relativismo e l’indeterminatezza del canone di riferimento, dal momento che il concetto di merito, a seconda dei contesti in cui viene declinato e di chi lo declina, si riveste di significati diversi, spesso contraddittori. In Francia – meno per la verità in Italia - si è da tempo radicata un’accezione (contro la quale la Duru-Bellat spezza più di una lancia) di tipo “credenzialista”, la cosiddetta Education Based Meritocracy, come la chiamano gli studiosi anglosassoni, che identifica il merito con il successo nei percorsi di istruzione e con i titoli di studio acquisiti, facendone il criterio-base per l’assegnazione dei ruoli occupazionali e la determinazione delle retribuzioni. Può allora sorprendere che alcuni gruppi sociali – quelli composti dai meno istruiti e non solo, dalle stesse imprese che adottano sempre più spesso diversi criteri di selezione – rifiutino una tale interpretazione? Ed altri, ad esempio gli allievi delle Grandes Ecoles, la reputino viceversa irrefutabile? Insomma, le critiche qui menzionate ci fanno vedere la meritocrazia e la stessa eguaglianza delle opportunità come una coperta per certi aspetti troppo stretta e per altri troppo larga, comunque un punto di vista inadeguato a sostenere da solo valutazioni in termini di giustizia. Ho detto da solo perché nessuno dei due autori nega che si tratti pur sempre di un punto di vista imprescindibile, in particolare nelle società avanzate dell’occidente, e per più di un motivo. Un motivo teorico innanzitutto: disconoscere il valore del merito e della responsabilità individuale equivarrebbe a sposare una filosofia collettivista e determinista in insanabile contrasto sia con le basi morali della liberaldemocrazia che con le tendenze all’individualizzazione (ovvero – come altri preferiscono denominarla – alla soggetivizzazione), che sono sempre più pervasive nelle nostre società. Inoltre l’idea “a meriti eguali, pari ricompense”, al di là dei limiti e delle ambivalenze, possiede un grande potenziale di mobilizzazione, una carica motivazionale che rappresenta un fattore essenziale di coesione e di progresso in un’Europa alla ricerca di un Welfare attivo e non più solo assistenziale, e di un sistema di diritti sociali che non avalli comportamenti abusivi e di danno al bene collettivo. Al modello della égalité des chances viene opposto, come si è detto, il modello della égalité des places, che significa eguaglianza (relativa) delle posizioni, ovvero, per maggiore esattezza, delle condizioni associate alle posizioni. In questo approccio a collocarsi al centro del discorso sulla giustizia non è l’equa assegnazione delle posizioni,ma è la loro struttura gerarchica, cioè il divario che intercorre fra esse in termini di redditi e di condizioni di vita. Nel campo dell’educazione l’obiettivo fondamentale – invece della selezione e della valorizzazione degli studenti più talentuosi – diviene l’inclusione degli svantaggiati e l’innalzamento generale del livello di istruzione della popolazione. Nella politica sociale il prius diventa combattere la povertà, diffondere l’occupazione, offrire assicurazioni universali contro i rischi della vita, contenere le diseguaglianze eccessive di reddito e di ricchezza mediante le forme di redistribuzione tipiche del Welfare. Un orientamento ideale, quello della eguaglianza delle posizioni, che per un verso appare più generoso e solidaristico rispetto alla meritocrazia e alla stessa eguaglianza delle opportunità, per un altro verso connotato in senso liberale non meno, bensì solo diversamente, dal momento che fa sua l’istanza di assicurare, attraverso l’assegnazione di uno stock minimo di risorse, la “eguale libertà” di tutti gli individui di scegliere i propri progetti di vita. Istanza su cui concordano, sebbene vi rispondano in modo diverso, varie teorie assiologiche di ispirazione liberale e non liberista, ad esempio quelle di Rawls, Dworkin e Sen. A questo proposito conviene distinguere tra diverse possibili modalità di contenimento delle diseguaglianze di posizione o di condizione, una delle quali, la più convincente (tanto è vero che le ricerche la indicano come il modello di giustizia in grado di raccogliere maggiori consensi nella popolazione di varia età e di differenti nazioni) è l’innalzamento delle cosiddette soglie minime (di reddito, di istruzione, ecc.), cioè la soddisfazione universale dei bisogni essenziali della persona. Il libro di Dubet, peraltro, non risparmia critiche nemmeno a questomodello di giustizia, critiche formulate non tanto in termini di principio quanto con riferimento alle modalità storiche della sua messa in pratica ed agli “effetti perversi” che si sono evidenziati: il particolarismo dei regimi della protezione sociale organizzati per categorie occupazionali, il conservatorismo insito nel limitare le garanzie e le prestazioni del Welfare agli insiders escludendo gli outsiders, la mancata presa in carico delle nuove forme di povertà e di diseguaglianza, la disattenzione alla questione del riconoscimento delle identità e delle differenze, la crisi dei meccanismi di integrazione di tipo assimilazionista e degli assetti della governance di impianto statalista, la delusione per le promesse disattese della scolarizzazione di massa.

Le due eguaglianze
A quali conclusioni giungono gli autori?Molto simili, seppure non del tutto coincidenti. Entrambi reputano sbagliato scegliere una delle due “eguaglianze” a sacrificio dell’altra e si uniscono a quanti optano per una “poliarchia” dei principi di giustizia. Duru-Bellat precisa che la meritocrazia non è una teoria da rigettare bensì solo da riconoscere come incompleta, per cui le numerose critiche da lei formulate sono rivolte non tanto alla teoria quanto alle odierne pretese egemoniche dei suoi sempre più agguerriti fautori. Dubet si colloca sulla medesima linea introducendo però un altro elemento: la priorità a favore dell’eguaglianza delle posizioni. Eccone le ragioni: “Dans l’horizon d’un monde parfaitement juste, il n’y aurait même aucune raison de distinguer ces deux modèles de justice. Mais dans le monde tel qu’il est, la priorité donnèe à l’égalité des places vient de ce qu’elle provoque moins d’effets pervers que sa concurrante et, sourtout, qu’elle est la condition préalable à une égalité des chances plus aboutie. L’égalité des places accroît plus l’égalité des chances que bien des politiques visant directement cet objectif”. Qui si tocca in effetti un punto cruciale. A differenza di quanto sostenuto dagli apologeti della meritocrazia (per l’Italia si veda, ad esempio, l’interessante volume di Abravamel, Meritocrazia, Garzanti, 2008) tutte o quasi le ricerche comparative internazionali condotte, molte recentemente, sia da sociologi che da economisti mostrano che esiste una forte correlazione statistica inversa tra gli indicatori dell’eguaglianza delle opportunità e della mobilità sociale da un lato e quelli della diseguaglianza di reddito o di condizioni materiali di vita dall’altro. In altri termini dove, ad esempio nei paesi scandinavi, i redditi sono distribuiti in modo più egualitario lì l’égalité des chances risulta maggiore e la società appare, come si suole dire, più aperta. Dove invece, ed è ad esempio il caso degli Stati Uniti ed anche dell’Italia, i divari sono più estesi, l’impatto dello status dei genitori su quello dei figli figura decisamente più accentuato. Il che si spiega molto semplicemente: considerato che, come di nuovo emerge nitidamente dalle ricerche, la mobilità sociale più frequente è quella a breve o medio raggio, quanto più in un paese sono distanti le posizioni da scalare tanto più ridotte in quel contesto necessariamente risulteranno le chances di mobilità. A ciò si aggiunga – lo fa notare Duru-Bellat – che le diseguaglianze fra le posizioni oltre una certa misura, sovente superata nelle nostre società ed in particolare nel contesto americano dove un manager arriva a guadagnare stipendi perfino più di cento volte superiori a quelli di un suo operaio, appaiono chiaramente “immeritate” (quale che sia la nozione di merito con cui giudichiamo) e nel migliore dei casi giustificate unicamente da ragioni di mercato. Le conclusioni di Dubetmi sembrano convincenti: i due modelli vanno perseguiti insieme, senza dimenticare che mentre può darsi eguaglianza delle posizioni in assenza di meritocrazia – ma conosciamo bene i guasti che in questo caso si producono - non può esservi meritocrazia, declinata come eguaglianza delle opportunità, senza un certo grado di eguaglianza delle posizioni. È una verità che la sinistra riformista dovrebbe tenere bene a mente non lasciandosi sedurre dalle sirene di un’ingenua e mitizzata visione della meritocrazia. Nello stesso tempo, tuttavia, tali conclusioni vanno a mio avviso integrate da due ulteriori considerazioni. La prima è che una teoria della giustizia capace di combinare i due tipi di eguaglianza, quindi egualitarismo e meritocrazia, rimane pur sempre una teoria incompleta. Come non cessa di ricordarci Amartya Sen esistono altri punti di vista normativi “ragionevoli” – anzitutto quello imperniato sulla libertà,ma anche quello che guarda all’efficacia – di cui occorre tener conto in una valutazione comparativa, in termini di giustizia, tra diversi possibili “ordinamenti delle scelte sociali” o tra differenti politiche pubbliche. In secondo luogo, si pone l’esigenza di un’attenta contestualizzazione. L’Italia – come abbiamo appena rilevato - è caratterizzata da elevati divari di reddito e da bassi livelli di mobilità sociale, ma questi ultimi fanno parte di un quadro più generale che annovera livelli bassissimi di meritocrazia in tutti i campi. Non così, ad esempio, in Francia, dove il criterio del merito appare meno disatteso ed il problema è piuttosto che esso viene ancora interpretato in modo troppo restrittivo e per certi aspetti fuorviante, con il risultato di giustificare una discutibile “tirannia dei diplomi”. In Italia resta sì ferma l’irrinunciabilità – almeno per la sinistra riformista – della lotta per forme di “giusta eguaglianza”, ma la questione del merito e della lotta ai molteplici clientelismi, favoritismi e privilegi non può non essere considerata anche essa una questione prioritaria