sabato 30 luglio 2011

Scontri nelle masserie fra briganti e galantuomini: UN'ALTRA STORIA D'ITALIA

Le masserie e i boschi di Martina (TA) conservano segni e ricordi di antiche violenze: fortificazioni, grotte e caverne sperdute sono stati presidi e rifugi nella lotta tra galantuomini e briganti. Il più delle volte, però, le divisioni all'interno del ceto dei galantuomini passavano anche fra i briganti, utilizzati nella lotta delle fazioni locali
e a volte, con un disegno politico di più ampia portata, nella lotta delle cricche locali contro il potere centrale. Da questo punto di vista il personaggio più importante che si sia aggirato nei nostri boschi e tra le nostre masserie è senza dubbio Ciro Annichiarico, il brigante che nel primo ventennio dell'Ottocento ha fatto il bello e il cattivo tempo in quel di Taranto, Martina, Ostuni e Francavilla.
Don Ciro Annichiarico, chierico di Grottaglie, si diede alla macchia perché
accusato dell'assassinio di don Giuseppe Motolese, avvenuto il 16 luglio 1803.
Anche don Giuseppe era un chierico, ma proveniva da una delle famiglie più
ricche di Grottaglie, quella dei Motolese. Fra i due giovani chierici il motivo della contesa era stato una bella donna, Antonia Zaccaria, fidanzata di don Ciro. I boschi da allora divennero il rifugio di don Ciro e della sua banda. Egli ha lasciato persino il suo nome ad un monte, presso la masseria del Duca, vicino al monte Trazzonara: il monte di Papa Ciro. I galantuomini utilizzarono il brigante Ciro Annichiarico finché fece loro comodo, gli assicurarono la loro protezione servendosene per le loro vendette, per illeciti arricchimenti e nella lotta contro l'autorità del Regno di Napoli. Quando, dopo la Restaurazione, i Borboni vollero
ripristinare il loro potere, fu inviato in Puglia, per reprimere il brigantaggio, il generale Riccardo Church. Già alla fine del 1817 la sorte di Ciro Annichiarico era segnata perché non era riuscito a stabilire una salda alleanza con i Vardarelli, che con la loro banda di briganti controllavano la Puglia settentrionale.
E soprattutto perché il potere centrale si proponeva di spezzare la catena di fratellanza tra le persone di un certo grado e posizione e i capi birbanti. Venuta meno la protezione della borghesia agraria, don Ciro poteva ancora illudersi di essere il capo della setta dei Decisi e di andare a piantare l'albero della libertà.
Ormai doveva soltanto scappare e nella fuga compie, proprio a Martina, una delle sue ultime scorrerie: nel gennaio 1818 attacca la masseria Piccoli, ove sequestra e ricatta il proprietario Pietro Chiarelli, obbligandolo a versare la somma di tremiladucati. Dopo la sconfitta subita a San Marzano, è ancora in una masseria, la masseria di Scasserba, che Ciro Annichiarico oppone l'ultima resistenza prima di essere catturato il 7 febbraio 1818. Doveva incutere un certo timore, per tutto quello che avrebbe potuto rivelare, tanto che, solo un giorno dopo la cattura, venne processato e fucilato. La testa staccata dal busto, cotta ed essiccata nel
forno, fu esposta per mesi, in una gabbia di ferro, alla porta di Grottaglie. Più breve e stata l'avventura dell'altro grande brigante, il sergente Romano, di Gioia del Colle. Dopo l'Unita di Italia, Pasquale Domenico Romano, figlio di un capraio,un sergente che aveva imparato a leggere e scrivere nell'esercito borbonico, nel gennaio 1861 era stato rinviato a Gioia senza arte ne parte. Qui al primo costituirsi dei comitati borbonici fu designato comandante generale delle squadre insorgenti di Gioia e dei Comuni limitrofi. La sua motivazione politica appare,
quindi, più immediata e meglio organizzata nel quadro della reazione borbonica contro l'Unità d'Italia, contro i Savoia, i Piemontesi e i Liberali. Anch'egli attuò il tentativo, maturato durante il convegno nel bosco delle Pianelle, di allargare le sue alleanze: invio emissari a Carmine Crocco che, dai boschi di Monticchio, con una banda di circa duemila uomini, terrorizzava il Melfese, per promuovere insieme l'insurrezione controrivoluzionaria delle popolazioni meridionali, onde
ripristinare il caduto regime.
Come era accaduto a Ciro Annichiarico, anche il sergente Romano rimase
isolato e la sua banda fu assalita dalla Fanteria e dalla Guardia Nazionale, presso la masseria Monaci, il 1 dicembre 1862. La banda fu sgomitata e si salvarono i briganti che riuscirono a fuggire. Tra questi il cegliese Francesco Monaco, reclutato dai briganti a Specchia Tarantina il 29 settembre 1862. Tra le masserie di Martina, come dichiarò poi Domenica Rosa Martinelli di Ceglie al giudice istruttore, il Monaco con la sua banda, visse con lei la sua storia d'amore. Trovo ospitalità a Pilozzo, Spezzatarallo, Monte del Duca e Pilano, finché non fu ucciso
dagli stessi suoi compagni. Il sergente Romano, invece, finì ucciso a sciabolate dai soldati piemontesi nei boschi di Vallata, presso Gioia del Colle, il 5 gennaio 1863. Il brigantaggio era stato sconfitto e, negli anni successivi, ci fu una repressione ancora più dura e indiscriminata. Il fenomeno nella nostra zona aveva assunto grandi dimensioni, numerosissimi i martinesi che si erano dati al brigantaggio: Francesco Carlo, Agostino Paolo Conserva, Francesco Cito, Giuseppe Conforti, Domenico di Monna, Lorenzo Fragnelli, Vito Leonardo Lucarelli, Carlo Miola, Giuseppe e Ignazio Semeraro, Vincenzo Tagliente, Angelo Vinci e Benedetto Maggi. Il brigantaggio è parte integrante della storia dell'Italia meridionale e, come tale, va studiato e approfondito senza misteri e senza infingimenti, penetrandone la vera portata. Che non fu quella di guerriglia sanguinaria fine a se stessa, ma di un movimento generato da profonde ragioni
sociali e che trovo la sua spinta principale nell'ansia di conquista di migliori condizioni di vita.
Se successivamente il brigantaggio continuò ad esistere, esso fu considerato
come un fenomeno di delinquenza comune, di cui dovettero occuparsi i magistrati e non gli storici e tanto meno i politici. Ma le profonde ragioni sociali, che avevano animato il brigantaggio, non ebbero una risposta adeguata e il malessere che permaneva nelle nostre campagne ebbe la dura risposta dello Stato. All'epoca dei nostri nonni avvenne a Martina una rapina che da tutti fu considerata un atto di brigantaggio. Fu assaltata e saccheggiata la masseria San Paolo del più ricco possidente di Martina, don Ciccillo Basile, detto Masella, dal nome di una delle
sue tante proprietà. L'episodio e ricordato da molti, anche oggi, con i toni favolosi della storia di briganti: all'imbrunire del 23 settembre 1922, mentre la famiglia padronale recitava il rosario, apparvero i briganti, senza che nessun cane ne avesse segnalato la presenza. Il padrone don Ciccillo fu catturato nella cappella, colpito a bastonate, legato e chiuso in un sacco. La stessa sorte tocco ai servitori fedeli, che avevano tentato di resistere: Cosimo Brigida, Giovanni Liuzzi, Nicola Caramia e Paolo Ferroforte. I briganti erano una quindicina, tra essi vi era anche
una donna travestita da monaca, tutti con la faccia tingiiute. Diedero anche una randellata al guardiano. La signora, donna Nina Lenti, vista l'inutilità di ogni resistenza, implorò i briganti dicendo: prendete tutto quello che volete, basta che non toccate la nutrice e il bambino. Il bambino era il giovane erede don Alfonso Basile. I briganti vollero che fosse imbandita la tavola e si fecero servire dalla signora e da donna Rosa Basile. Per allietare il banchetto si misero persino a strimpellare il pianoforte. Prima dell'alba lasciarono la masseria con il bottino di
argenteria, gioielli e danaro.
Don Ciccillo riuscì a liberarli per primo e diede l'allarme in città. Fu subito arrestato il guardiano Pietro Massafra, accusato di aver segnalato la via libera ai banditi con la luce di una candela e di aver avvelenato il cane di guardia, trovato morto alcuni giorni dopo nel bosco cisure longhe della masseria Cavaliere. Il guardiano, a solo trentun'anni, morì in carcere per le bastonate ricevute ancor prima del processo. La moglie, convinta della sua innocenza, inutilmente aveva venduto persino a fazzatore per pagare gli avvocati. Pietro Massafra fino alla fine si dichiarò innocente, ma quando nella camera ardente il suo cadavere finì
bruciato da un cero che si era rovesciato, sembrò raggiunto dalla maledizione. Gli altri banditi furono arrestati dopo qualche mese, grazie alle soffiate raccolte nell'ambiente della malavita locale, da Emanuele Primavera, un caporione fascista. Ancora una volta un regime forte, come era quello fascista, con la repressione più dura e senza andare tanto per il sottile, ristabilì l'ordine e trovò i colpevoli da punire. Il processo iniziò a Taranto il 18 ottobre 1924 e già il 12 novembre la Corte d'Assise era in grado di pronunciare la sentenza di condanna per rapina qualificata e lesioni per 18 imputati, con pene che andavano da 23 a 15 anni di carcere. Tra essi, oltre al Massafra già defunto, furono condannati due altri martinesi: Antonio Cannarile, detto u russìne, un contadino povero, e Pietro Semeraro, detto mustazze, un fruttivendolo. Gli altri condannati furono: Angelo Rotunno di Ostuni, ritenuto il capo, Oronzo Di Giuseppe, Tommaso Sarcinella, Angelo Rodio, Maria Grassi e Isabella Calella di Locorotondo, Vito Luigi Mancarella e Vito Sbano di San Vito dei Normanni, Giuseppe Longo di Mesagne, Salvatore Zito di Taranto, Stefano Indolfo, Filippo Giancola, Nicola Semeraro e Leonardo D'Errico di Cisternino e Giulio Bergametto di Latiano. I ricchi galantuomini avevano ritrovato il regime d'ordine pronto a difendere prestigio offeso e ricchezze minacciate, mentre le profonde ragioni sociali, che erano state all'origine del brigantaggio e dei delitti contro la proprietà e la persona, non
avevano ancora trovato i loro teorici meridionalisti.
Infatti le masse popolari, incapaci di espressione, come diceva Benedetto Croce, non facevano Storia.


Bibliografia
A. LUCARELLI, Il brigantaggio politico del Mezzogiorno d'Italia (1815-1818),
Bari, 1942.
A. LUCARELLI, Il brigantaggio politico delle Puglie dopo il 1860 - Il
sergente Romano, Bari, 1946.
V. CARELLA, Il brigantaggio politico nel brindisino dopo l'Unità, Fasano, 1974.
Ringraziamenti
Siamo in debito con Ottavio Guida, direttore dell'Archivio di Stato di Taranto, perl'assistenza fornitaci, durante la consultazione del Registro dei Reati della Corte d'Assise di Taranto.

(FRANCESCO SEMERARO)

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