venerdì 18 febbraio 2011

MERITOCRAZIA E GIUSTIZIA SOCIALE.

l.benadusi . Mondoperaio, gennaio 2011

In un paese travagliato da costanti lacerazioni politiche ed ideologiche quale è l’Italia l’ideale della meritocrazia, pur così lontano dalla realtà dei pensieri e dei comportamenti degli italiani e forse proprio perché così lontano, sembra assurgere ad un ruolo di collante bipartisan, qualcosa di cui o si fa una bandiera (per taluni politici o consiglieri di politici la propria bandiera), o per lo meno un argomento assolutamente indisputabile (beninteso sul piano delle retoriche, la pratica essendo altra cosa). Negli altri paesi europei il credo della meritocrazia è celebrato in un modo un poco meno ossessivo, ma gode pur sempre di crescenti consensi, correlato com’è alla erosione del vecchio Welfare (nelle versioni nordica e continentale, per riferirci alle note tipologie di Esping-Andersen), ed all’esaltazione - alquanto scalfita sì, ma non interrotta dall’avvento della crisi globale - del modello sociale americano. Ciò che sembra ancora distinguere la sinistra rispetto alla destra, pure nel loro comune ossequio alla religione del merito, è il rapporto da stabilire fra questo nuovo valore e la tradizionale religione dell’eguaglianza. Come osservava Bobbio, il vero discrimine “filosofico” fra destra e sinistra sta proprio su questo punto. Infatti, la “Terza via” blairiana – pensiamo al volume The New Egalitarians edito qualche anno fa dal suo principale teorico, Anthony Giddens – riprendendo e spingendo avanti orientamenti già emersi tra i laburisti inglesi nella seconda metà del secolo scorso, si è posta all’avanguardia di una svolta meritocratica all’interno dell’intera sinistra europea, non senza però sottolineare che essa andava intesa come una riformulazione e non come l’abbandono della vecchia e cara idea dell’eguaglianza. In realtà il principio meritocratico, a differenza del vecchio regime aristocratico basato sull’ereditarietà, si presenta indissolubilmente intrecciato con una delle diverse possibili declinazioni dell’idea di eguaglianza, le eguali opportunità. Una declinazione che postula l’azzeramento delle disuguaglianze sociali nel passaggio da una generazione all’altra, un riallineamento delle opportunità come presupposto imprescindibile per una gara che si giochi unicamente sul merito, e che grazie a ciò finisca con un’equa produzione, piuttosto che con un’iniqua riproduzione, delle disuguaglianze. Di qui la centralità dell’educazione, vera e propria culla della società meritocratica, in quanto solo dopo che la scuola abbia annullato l’impatto del background socio-familiare sulle competenze delle nuove generazioni queste possono entrare in una serie di competizioni meritocratiche – innanzitutto nel lavoro - facendovi valere unicamente risorse personali, che vengono dai più – ma, come si vedrà, di ciò si discute – compendiate nel binomio talento (naturale) + impegno (o sforzo). Su questa interpretazione si è registrato un consenso pressoché universale nel mondo occidentale, rilevabile perfino fra contesti culturalmente e politicamente distanti come, ad esempio, la Francia radicale e statalista di Durkheim e l’America liberale e individualista di Jefferson o di Conant. Piuttosto, la differenza fra Europa e Stati Uniti passa sul grado d’importanza, fino all’esclusività, che si accorda al principio di eguaglianza delle opportunità nell’ambito delle rispettive concezioni (dominanti) della giustizia e sul ruolo assegnato all’educazione. Negli Stati Uniti l’eguaglianza delle opportunità educative e la mobilità sociale meritocratica hanno rappresentato l’epicentro del progetto di costruzione di una società giusta. In Europa, invece, l’idea di giustizia si è connotata, ovviamente per la sinistra che se n’è fatta portatrice, in modo più decisamente egualitario, dal momento che l’eguaglianza è stata intesa come (relativamente) eguali condizioni da conseguire grazie alle politiche del Welfare ed all’imposta progressiva sul reddito, e non soltanto come eguali opportunità da assicurare a tutte le classi ed i ceti sociali essenzialmente per il tramite dell’educazione. La novità dell’oggi è in una sorta di inversione di tendenza: negli Stati Uniti con la politica di Obama – riforma sanitaria, limiti al potere delle banche e delle finanziarie, interventi contro la disoccupazione di massa – cominciano ad entrare in campo orientamenti e strumenti di policy tipici del contesto europeo, mentre in Europa sull’onda della crisi del Welfare tradizionale sta prendendo corpo un indirizzo di policy di tipo “americano”, che pone in primo piano l’istanza della meritocrazia (per la sinistra nella sua versione originaria, quindi con una connotazione egualitaria, per la destra in una versione esclusivamente procedurale che la avvicina a quella che Rawls, nella sua tipologia delle concezioni di giustizia, definiva “competizione naturale”, e che potremmo anche etichettare come una forma di darwinismo sociale).

L’individualismo asociologico
In quest’ultima accezione meritocrazia non significa infatti eguaglianza delle opportunità e mobilità sociale bensì semplicemente selezione dei migliori e perseguimento dell’eccellenza nei vari campi, dall’istruzione al lavoro e all’economia, grazie alla messa in opera di meccanismi concorrenziali ma a prescindere dalla correzione iniziale invocata dai fautori della parità dei punti di partenza. Accompagna l’avvento di questa nuova visione della meritocrazia, apertamente disegualitaria, e ne cementa l’alleanza con l’ideologia neo-liberista, un individualismo asociologico (del genere, per dirla con la Thatcher, “ non so che sia la cosa che chiamano società”) che porta con sé una sopravvalutazione dell’autonomia e della responsabilità dell’individuo insieme ad una sottovalutazione, o addirittura un misconoscimento, dei condizionamenti derivanti dai contesti entro i quali essi si trovano ad agire. Esattamente l’opposto del sociologismo determinista e deresponsabilizzante tanto diffuso negli anni post-68. Primi esempi di traduzione nella policy dell’istruzione di tale nuova visione della meritocrazia sono rinvenibili in alcune leggi o progetti di legge di governi europei – un recente decreto della Merkel ed il ddl di riforma universitaria della Gelmini – che non solo fanno del merito, come può essere considerato ragionevole (senza peraltro dimenticare che la Costituzione italiana parla di “meritevoli, anche se privi dimezzi”), il requisito per la concessione di premi agli studenti, ma negano ogni rilievo al bisogno anche solo come criterio per commisurarne l’ammontare. Altri esempi, questa volta concernenti i premi diretti non agli individui ma alle istituzioni, sono la mancata presa in esame, fra i criteri della valutazione alla base dell’allocazione delle risorse premiali, di imprescindibili fattori di contesto, quali la composizione della popolazione studentesca. Accade così che una scuola o un’università frequentata da studenti di origine sociale medio- bassa, con precedenti scolastici meno brillanti e magari con situazioni miste di studio e lavoro venga penalizzata solo per effetto della sua composizione, anche se i risultati ottenuti siano migliori di quelli conseguiti da istituzioni apparentemente più efficienti, ma in realtà solo più prestigiose grazie alle loro capacità di scremare i flussi in entrata (cream skimming). Lasciamo però da parte quest’ultima versione della meritocrazia, decisamente disegualitaria, e concentriamoci invece sul dilemma fra le due eguaglianze - eguaglianza delle opportunità ed eguaglianza delle condizioni - cioè tra il modello sociale tradizionale dell’Europa e il modello tradizionale americano, che è poi il vero dilemma davanti al quale si trovano, su ambedue le sponde dell’oceano, le correnti di pensiero e le forze politiche della sinistra riformista. Vi è anzitutto da notare che mentre l’eguaglianza delle opportunità, di stampo meritocratico, sembra godere in Europa di sempre maggiori consensi e rappresentare, insieme al Welfare attivo e alle politiche di empowerment, la nuova frontiera del riformismo di sinistra, sono apparsi di recente in Francia due libri, entrambi di sociologi (M.Duru-Bellat, Le Mérite contre la justice, Presses de Sciences-Po, Paris, 2009 e F.Dubet, Les places et les chances, Seuil, Paris, 2010), che conducono una critica serrata ed assai bene argomentata tanto della meritocrazia quanto dell’eguaglianza delle opportunità. Essi riprendono, ampliano ed aggiornano un indirizzo critico avviato più di cinquanta anni fa da un altro sociologo, questa volta inglese, con un gustoso e provocatorio libretto (M.Young, The Rise of Meritocracy, Transaction Publisher United, New York, 1958), nel quale si narrava l’ipotetica storia di una comunità dove a seguito di una rivoluzione si era insediato un rigoroso regime di meritocrazia egualitaria che dopo gli entusiasmi iniziali aveva provocato fortissime tensioni sociali culminate nel suo cruento abbattimento. Tuttavia,malgrado l’interesse suscitato dal libretto anche sul piano politico (perché l’autore – allora giovane intellettuale militante nel partito laburista – intendeva mettere in guardia il suo partito contro l’acritica adesione a questa nuova ideologia), il concetto di eguaglianza delle opportunità ha continuato fino ad oggi a rappresentare per la sociologia un indiscusso (ancorché spesso implicito) punto di riferimento normativo ed una sorta di tropismo della ricerca empirica in campi quali l’educazione, il lavoro, la mobilità sociale, e più di recente le relazioni di genere.

Nessun merito è meritato
Come si articola e su che cosa si fondano le critiche avanzate dagli autori dei due libri appena citati? Cominciamo col notare che esse appaiono largamente convergenti, e soprattutto nel volume della Duru- Bellat,ma anche in quello di Dubet, sono corredate e supportate dai risultati di un gran numero di indagini effettuate in Francia e in altri paesi. Vediamone gli argomenti più salienti. Innanzitutto ci si domanda se la meritocrazia possa essere davvero giudicata un ordinamento sociale rispondente a giustizia. Riaffiora qui il noto argomento di Rawls secondo cui, muovendo dal principio che nessuno meriti di essere né premiato né punito se non per qualcosa di cui porti la responsabilità, gli esiti della “lotteria naturale” non sono da considerarsi più giusti di quelli della “lotteria sociale”. Se nessun merito, nel senso di talento, è davvero “meritato”, combattere le diseguaglianze in termini di risorse (o dei rawlsiani “beni primari”) generate dalla lotteria sociale applicando la regola dell’eguaglianza delle opportunità non basta, sebbene la regola nei suoi limiti venga riconosciuta come una regola giusta. Le diseguaglianze, tutte le diseguaglianze, vanno giudicate eticamente accettabili solo a patto che fungano da incentivo per il conseguimento di altri obiettivi di giustizia. Obiettivi che come è noto nella teoria di Rawls (non così in altre, ad esempio nell’utilitarismo dove la giustizia è fatta coincidere con la massima utilità aggregata) si identificano nel massimo incremento delle risorse a disposizione dei soggetti più svantaggiati. Inoltre – e ci troviamo qui su una linea già battuta da molti nel fitto dibattito filosofico sviluppatosi da una quarantina di anni su questo tema – assolutizzare la norma dell’indipendenza dello status sociale dei figli rispetto a quello dei genitori comporterebbe (ne è tuttora una dimostrazione esemplare quanto prefigurato in proposito nella Repubblica di Platone) un vulnus per la libertà della famiglia e per il suo ruolo di centro di scambi affettivi e comportamenti solidaristici, effetto che pochi sarebbero pronti a riconoscere come giusto. Annullare l’impatto del background socio-familiare richiederebbe poi un grado di interventismo statale che di nuovo pochi sarebbero inclini a riconoscere come giusto e compatibile con il funzionamento di un ordinamento sociale e politico di tipo liberale. In più si pongono complicati problemi di misurabilità. La distinzione tra eredità genetica ed eredità sociale dell’intelligenza, cardine della teoria normativa dell’eguaglianza delle opportunità, rimanda ad un momento zero, un punto di partenza, nel quale le diseguaglianze rinvenibili sarebbero esclusivamente naturali, non essendosi ancora dispiegata l’influenza dei fattori socio-familiari. E’ a quel punto che le diseguaglianze andrebbero bloccate ovvero riallineate attraverso interventi educativi ed occupazionali ex post di tipo compensativo. Obietta Duru-Bellat: rintracciare il punto ‘0’ ed operazionalizzare l’una e/o l’altra delle due strategie risulta praticamente impossibile, dato l’intreccio esistente fin dalla nascita, e addirittura già nella fase della gestazione, fra natura e cultura, fattori biologici e fattori sociali. Anzi, l’intreccio risulta ancora più complesso e difficilmente districabile perché involge, oltre ai talenti geneticamente e socialmente ereditati, anche l’uso che il soggetto fa ed impara a fare dei suoi talenti, cioè quella componente di agency non determinista che la teoria chiama “sforzo” o “impegno”. Se si dovesse pensare, come l’autrice mostra di fare, che il merito allo stato puro ed il punto di partenza sono concetti irrimediabilmente astratti e inverificabili, la teoria della meritocrazia egualitaria non sarebbe in grado di offrire alcun parametro idoneo a misurare le distanze fra i suoi principi e la realtà.

La casualità dei destini
Per la verità mi pare giusto rilevare che una soluzione di questo problema la teoria in effetti la offra compiendo un’operazione di drastica riduzione della complessità: assumere che le macro-diseguaglianze fra categorie – le classi, gli strati, i generi, le etnie, ecc. – abbiano le loro radici nel sociale mentre le micro-diseguaglianze – inter-individuali o fra gruppi e situazioni di minore rilievo – possano invece avere anche delle determinanti genetiche ovvero essere riconducibili alla sfera dell’impegno e delle scelte soggettive. Quando si accetti tale semplificazione, si può convenire che eguagliare le opportunità significa abolire o almeno ridurre le prime lasciando libero gioco alle seconde, da rubricare a questo punto non tanto come diseguaglianze quanto come differenze. E si può disporre così di metodologie statistiche, quelle da tempo usate da sociologi ed economisti, in grado di misurare la conformità delle situazioni empiriche al modello. Ci si deve però porre un’altra domanda: riconosciuto che sia giusto contrastare l’influenza sul successo o l’insuccesso degli individui dell’origine sociale – o di altre appartenenze categoriali quali quelle prima menzionate – le diseguaglianze residue sarebbero davvero ascrivibili ai soli talenti naturali o all’impegno ed alle libere scelte personali, e quindi da considerarsi legittime, ovvero potrebbero dipendere da altri fattori anche essi di natura sociale, o da mere casualità, e pertanto non legittimabili in base ai criteri del merito e delle opportunità? Due esempi fra i tanti possibili: il capitare in una scuola o in una classe sbagliata, oppure l’aver scelto un mestiere che nel tempo entri in crisi per cambiamenti del contesto economico imprevedibili al momento della scelta. Perché i principi delle eguali opportunità e della meritocrazia dovrebbero proteggere l’individuo dalle conseguenze negative di una nascita sfortunata e disinteressarsi di tutta una serie di circostanze egualmente sfortunate, molte delle quali sono direttamente o indirettamente imputabili all’azione della collettività e perfino a ben determinate politiche pubbliche? Ricorderò in proposito la lezione di Von Hayek, un grande economista liberale, un classico della teoria del mercato. Vale fra l’altro la pena di farlo dopo che due autorevoli economisti di orientamento neo-liberista come Giavazzi ed Alesina, in un provocatorio saggio dal titolo Il mercato è di sinistra pubblicato pochi anni fa, hanno ribadito la tesi che il libero mercato va a braccetto della meritocrazia perché premia il merito delle persone e delle organizzazioni. VonHayek invece, svariate decine di anni fa, ebbe a confutare con lucide argomentazioni l’idea di una relazione intrinseca fra merito e mercato, cioè fra etica ed economia, criticando la meritocrazia proprio per la sua pretesa di imporre al mercato regole esterne che ne avrebbero condizionato la libertà e tradito la funzione.

Il rischio dell’elitismo
Un’altra obiezione avanzata da Dubet già nel suo precedente libro, L’Ecole des chances. Qu’est-ce qu’une école juste?, è che la meritocrazia, in generale e pure nella sua versione egualitaria di cui stiamo trattando, rivela una marcata impronta di elitismo, preoccupandosi di ciò che accade negli strati più elevati della società e disinteressandosi della sorte degli strati inferiori: “C’est toujours dans le sphères les plus élevées de la societé que l’on mesure l’effectivité de l’égalité des chances” (Dubet, Les places et les chances, p.75). E’ certo auspicabile, prosegue l’autore, che i figli dei poveri formino il 15%degli effettivi delle Grandes Ecoles, perché compongono il 15% della società, ma non è sicuro che questo cambi granché nella società francese, dal momento che i poveri sono milioni mentre gli allievi delle Grandes Ecoles sono soltanto centinaia. “Vinca il migliore” è la parola d’ordine della meritocrazia, cui segue però implicitamente un crudele “guai ai vinti”. Ma oltre ai dubbi sollevati sul terreno della giustizia, altri ne sono messi in campo da Dubet eDuru-Bellat, sulla scia del ricordato libretto di Young, riguardanti la desiderabilità sia per l’individuo che per la società di un regime rigorosamente meritocratico. Non si contano le ricerche empiriche che hanno messo in evidenza, per usare le parole di altri due autori citati nel libro della Duru-Bellat, le “malattie dell’eccellenza”, cioè i guasti nella qualità della vita, nell’equilibrio psicologico e nella stessa salute fisica delle persone prodotti da società iper-competitive e fortemente disegualitarie. Società dove vi è sempre una gara da affrontare e, come diceva Eduardo De Filippo, “gli esami non finiscono mai”. In un contesto meritocratico, o presunto tale, i perdenti non hanno da imputare ad altro o ad altri se non a se stessi, al proprio “demerito”, le sconfitte subite, con tutti i costi psicologici e sociali che ne derivano. Non stupisce allora – lo mostrano anche qui una serie di indagini - che il principio della meritocrazia, popolare fra i vincenti, lo sia assai meno negli strati sociali inferiori, più inclini a parteggiare per l’ideale dell’eguaglianza tradizionalmente intesa. La preminenza del merito nel discorso sulla giustizia può così diventare fonte di problemi sul terreno della coesione sociale, problemi che peraltro chiamano in causa un ulteriore aspetto critico della teoria: il relativismo e l’indeterminatezza del canone di riferimento, dal momento che il concetto di merito, a seconda dei contesti in cui viene declinato e di chi lo declina, si riveste di significati diversi, spesso contraddittori. In Francia – meno per la verità in Italia - si è da tempo radicata un’accezione (contro la quale la Duru-Bellat spezza più di una lancia) di tipo “credenzialista”, la cosiddetta Education Based Meritocracy, come la chiamano gli studiosi anglosassoni, che identifica il merito con il successo nei percorsi di istruzione e con i titoli di studio acquisiti, facendone il criterio-base per l’assegnazione dei ruoli occupazionali e la determinazione delle retribuzioni. Può allora sorprendere che alcuni gruppi sociali – quelli composti dai meno istruiti e non solo, dalle stesse imprese che adottano sempre più spesso diversi criteri di selezione – rifiutino una tale interpretazione? Ed altri, ad esempio gli allievi delle Grandes Ecoles, la reputino viceversa irrefutabile? Insomma, le critiche qui menzionate ci fanno vedere la meritocrazia e la stessa eguaglianza delle opportunità come una coperta per certi aspetti troppo stretta e per altri troppo larga, comunque un punto di vista inadeguato a sostenere da solo valutazioni in termini di giustizia. Ho detto da solo perché nessuno dei due autori nega che si tratti pur sempre di un punto di vista imprescindibile, in particolare nelle società avanzate dell’occidente, e per più di un motivo. Un motivo teorico innanzitutto: disconoscere il valore del merito e della responsabilità individuale equivarrebbe a sposare una filosofia collettivista e determinista in insanabile contrasto sia con le basi morali della liberaldemocrazia che con le tendenze all’individualizzazione (ovvero – come altri preferiscono denominarla – alla soggetivizzazione), che sono sempre più pervasive nelle nostre società. Inoltre l’idea “a meriti eguali, pari ricompense”, al di là dei limiti e delle ambivalenze, possiede un grande potenziale di mobilizzazione, una carica motivazionale che rappresenta un fattore essenziale di coesione e di progresso in un’Europa alla ricerca di un Welfare attivo e non più solo assistenziale, e di un sistema di diritti sociali che non avalli comportamenti abusivi e di danno al bene collettivo. Al modello della égalité des chances viene opposto, come si è detto, il modello della égalité des places, che significa eguaglianza (relativa) delle posizioni, ovvero, per maggiore esattezza, delle condizioni associate alle posizioni. In questo approccio a collocarsi al centro del discorso sulla giustizia non è l’equa assegnazione delle posizioni,ma è la loro struttura gerarchica, cioè il divario che intercorre fra esse in termini di redditi e di condizioni di vita. Nel campo dell’educazione l’obiettivo fondamentale – invece della selezione e della valorizzazione degli studenti più talentuosi – diviene l’inclusione degli svantaggiati e l’innalzamento generale del livello di istruzione della popolazione. Nella politica sociale il prius diventa combattere la povertà, diffondere l’occupazione, offrire assicurazioni universali contro i rischi della vita, contenere le diseguaglianze eccessive di reddito e di ricchezza mediante le forme di redistribuzione tipiche del Welfare. Un orientamento ideale, quello della eguaglianza delle posizioni, che per un verso appare più generoso e solidaristico rispetto alla meritocrazia e alla stessa eguaglianza delle opportunità, per un altro verso connotato in senso liberale non meno, bensì solo diversamente, dal momento che fa sua l’istanza di assicurare, attraverso l’assegnazione di uno stock minimo di risorse, la “eguale libertà” di tutti gli individui di scegliere i propri progetti di vita. Istanza su cui concordano, sebbene vi rispondano in modo diverso, varie teorie assiologiche di ispirazione liberale e non liberista, ad esempio quelle di Rawls, Dworkin e Sen. A questo proposito conviene distinguere tra diverse possibili modalità di contenimento delle diseguaglianze di posizione o di condizione, una delle quali, la più convincente (tanto è vero che le ricerche la indicano come il modello di giustizia in grado di raccogliere maggiori consensi nella popolazione di varia età e di differenti nazioni) è l’innalzamento delle cosiddette soglie minime (di reddito, di istruzione, ecc.), cioè la soddisfazione universale dei bisogni essenziali della persona. Il libro di Dubet, peraltro, non risparmia critiche nemmeno a questomodello di giustizia, critiche formulate non tanto in termini di principio quanto con riferimento alle modalità storiche della sua messa in pratica ed agli “effetti perversi” che si sono evidenziati: il particolarismo dei regimi della protezione sociale organizzati per categorie occupazionali, il conservatorismo insito nel limitare le garanzie e le prestazioni del Welfare agli insiders escludendo gli outsiders, la mancata presa in carico delle nuove forme di povertà e di diseguaglianza, la disattenzione alla questione del riconoscimento delle identità e delle differenze, la crisi dei meccanismi di integrazione di tipo assimilazionista e degli assetti della governance di impianto statalista, la delusione per le promesse disattese della scolarizzazione di massa.

Le due eguaglianze
A quali conclusioni giungono gli autori?Molto simili, seppure non del tutto coincidenti. Entrambi reputano sbagliato scegliere una delle due “eguaglianze” a sacrificio dell’altra e si uniscono a quanti optano per una “poliarchia” dei principi di giustizia. Duru-Bellat precisa che la meritocrazia non è una teoria da rigettare bensì solo da riconoscere come incompleta, per cui le numerose critiche da lei formulate sono rivolte non tanto alla teoria quanto alle odierne pretese egemoniche dei suoi sempre più agguerriti fautori. Dubet si colloca sulla medesima linea introducendo però un altro elemento: la priorità a favore dell’eguaglianza delle posizioni. Eccone le ragioni: “Dans l’horizon d’un monde parfaitement juste, il n’y aurait même aucune raison de distinguer ces deux modèles de justice. Mais dans le monde tel qu’il est, la priorité donnèe à l’égalité des places vient de ce qu’elle provoque moins d’effets pervers que sa concurrante et, sourtout, qu’elle est la condition préalable à une égalité des chances plus aboutie. L’égalité des places accroît plus l’égalité des chances que bien des politiques visant directement cet objectif”. Qui si tocca in effetti un punto cruciale. A differenza di quanto sostenuto dagli apologeti della meritocrazia (per l’Italia si veda, ad esempio, l’interessante volume di Abravamel, Meritocrazia, Garzanti, 2008) tutte o quasi le ricerche comparative internazionali condotte, molte recentemente, sia da sociologi che da economisti mostrano che esiste una forte correlazione statistica inversa tra gli indicatori dell’eguaglianza delle opportunità e della mobilità sociale da un lato e quelli della diseguaglianza di reddito o di condizioni materiali di vita dall’altro. In altri termini dove, ad esempio nei paesi scandinavi, i redditi sono distribuiti in modo più egualitario lì l’égalité des chances risulta maggiore e la società appare, come si suole dire, più aperta. Dove invece, ed è ad esempio il caso degli Stati Uniti ed anche dell’Italia, i divari sono più estesi, l’impatto dello status dei genitori su quello dei figli figura decisamente più accentuato. Il che si spiega molto semplicemente: considerato che, come di nuovo emerge nitidamente dalle ricerche, la mobilità sociale più frequente è quella a breve o medio raggio, quanto più in un paese sono distanti le posizioni da scalare tanto più ridotte in quel contesto necessariamente risulteranno le chances di mobilità. A ciò si aggiunga – lo fa notare Duru-Bellat – che le diseguaglianze fra le posizioni oltre una certa misura, sovente superata nelle nostre società ed in particolare nel contesto americano dove un manager arriva a guadagnare stipendi perfino più di cento volte superiori a quelli di un suo operaio, appaiono chiaramente “immeritate” (quale che sia la nozione di merito con cui giudichiamo) e nel migliore dei casi giustificate unicamente da ragioni di mercato. Le conclusioni di Dubetmi sembrano convincenti: i due modelli vanno perseguiti insieme, senza dimenticare che mentre può darsi eguaglianza delle posizioni in assenza di meritocrazia – ma conosciamo bene i guasti che in questo caso si producono - non può esservi meritocrazia, declinata come eguaglianza delle opportunità, senza un certo grado di eguaglianza delle posizioni. È una verità che la sinistra riformista dovrebbe tenere bene a mente non lasciandosi sedurre dalle sirene di un’ingenua e mitizzata visione della meritocrazia. Nello stesso tempo, tuttavia, tali conclusioni vanno a mio avviso integrate da due ulteriori considerazioni. La prima è che una teoria della giustizia capace di combinare i due tipi di eguaglianza, quindi egualitarismo e meritocrazia, rimane pur sempre una teoria incompleta. Come non cessa di ricordarci Amartya Sen esistono altri punti di vista normativi “ragionevoli” – anzitutto quello imperniato sulla libertà,ma anche quello che guarda all’efficacia – di cui occorre tener conto in una valutazione comparativa, in termini di giustizia, tra diversi possibili “ordinamenti delle scelte sociali” o tra differenti politiche pubbliche. In secondo luogo, si pone l’esigenza di un’attenta contestualizzazione. L’Italia – come abbiamo appena rilevato - è caratterizzata da elevati divari di reddito e da bassi livelli di mobilità sociale, ma questi ultimi fanno parte di un quadro più generale che annovera livelli bassissimi di meritocrazia in tutti i campi. Non così, ad esempio, in Francia, dove il criterio del merito appare meno disatteso ed il problema è piuttosto che esso viene ancora interpretato in modo troppo restrittivo e per certi aspetti fuorviante, con il risultato di giustificare una discutibile “tirannia dei diplomi”. In Italia resta sì ferma l’irrinunciabilità – almeno per la sinistra riformista – della lotta per forme di “giusta eguaglianza”, ma la questione del merito e della lotta ai molteplici clientelismi, favoritismi e privilegi non può non essere considerata anche essa una questione prioritaria