mercoledì 24 marzo 2010

COSA CI MANCA DI ALDO MORO

di Pino Pisicchio

Trentadue anni fa la strage di via Fani e il rapimento di Moro. Politicamente sono passate ere geologiche che han portato via, con i tre decenni, anche un’Italia in bianco e nero, che faceva capolino dai tiggì istituzionali e dalle tribune politiche senza parolacce. Dal punto di vista del pensiero, però, dal punto di vista della qualità dei ragionamenti, dell’innovazione politica, la distanza delle ere geologiche è a vantaggio di quella stagione. Quante volte ci siamo domandati in questi anni che cosa avrebbe fatto Aldo Moro. Cosa avrebbe fatto una personalità come la sua, così poco incline all’esibizione e al compiacimento degli istinti più bassi del corpo elettorale, nell’era volgare che ci tocca vivere, con la politica ridotta ad un reality permanente, nutrito di gossip, di offese personali, di disarmante ignoranza, di sbirciatine dal buco della serratura? Qualche anno fa si era affermata una tendenza nelle discipline storiografiche a disegnare il possibile esito di un percorso diverso da quello che in realtà si era realizzato, tipo la geopolitica europea se Napoleone non avesse perso a Waterloo. Qualcosa più di un gioco intellettuale che, in realtà, valeva, appunto, come un esercizio intellettuale. Ciò che ha senso oggi, invece, ciò che va raccolto e rilanciato di quella stagione è il lavoro di un’intera generazione di uomini della politica, i costruttori della democrazia parlamentare italiana, che ci consegnarono un’Italia migliore di quella umiliata dal fascismo che loro avevano trovato. I nostri Padri difesero l’Italia e la possibilità di vivere in una democrazia moderna almeno in due grandi circostanze storiche. La prima fu la Resistenza, che riuscì a dare nobiltà e legittimazione democratica alla nostra classe dirigente, dopo la compromissione dei molti col fascismo. La seconda volta fu la resistenza al terrorismo degli anni ’70, quella lucida follia che fece vittime uomini della politica, intellettuali, magistrati, forze dell’ordine e sindacalisti. Moro fu l’emblema di questa seconda resistenza, interpretando quasi plasticamente, con quell’immagine sofferente dei giorni della lunga prigionia, la forza “mite”(un ossimoro che si attaglia particolarmente al suo lessico) della democrazia costituzionale. Quella Costituzione che aveva impegnato il giovane professore di Maglie, a soli ventinove anni, in un dibattito a tutto campo - oltre trecento interventi densi e spesso risolutivi in Assemblea Costituente-tra i padri della Patria. Ricordare Moro oggi, al di là del rito della memoria, significa allora mettere in faccia alla pallida politica di oggi la sua magnifica “inattualità”, il suo protagonismo all’interno di una generazione di giganti, di uomini che fecero grande e rispettato questo paese, disegnando regole del gioco della politica in cui la cultura, la passione e il senso di un destino collettivo rappresentavano la bussola. La differenza tra quella stagione e oggi? Moro, Calamandrei, Mortati hanno parlato di valore “pedagogico” della politica, di una politica, dunque, che deve insegnare la cittadinanza e la civiltà della partecipazione, indicando la strada alla gente. Oggi va di moda il marketing politico, secondo la formula del Ponzio Pilato: volete Gesù o Barabba? E se il sondaggio dice Barabba, state certi che Barabba sarà.