sabato 14 agosto 2010

SE I FINIANI USANO PUTIN PER ATTACCARE BERLUSCONI

DI FILIPPO GHIRA
rinascita.eu

Il terremoto in atto nel centrodestra tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini non può essere liquidato come il semplice e fisiologico scontro tra il capo supremo e il suo storico delfino che scalpita perché vede il tempo passare e con esso allontanarsi le possibilità di prenderne il posto nella guida di un governo di centrodestra ed affermarsi anche come il capo della coalizione. Diversi fatti inducono a sospettare che in parallelo ai finiani si muovano precisi interessi economici internazionali.

Interessi di gruppi che non amano l’attivismo del Cavaliere e i suoi forti e personali rapporti con Vladimir Putin che hanno permesso all’Eni e all’Enel di ritagliarsi un grande spazio di manovra in Russia. Non parliamo poi della ricomposizione dopo tanti anni dei rapporti con la Libia di Gheddafi nella quale anche le potenzialità dell’Eni e dell’Enel hanno giuocato un ruolo non indifferente.


Non è un caso infatti che, all’interno del rovente scambio di accuse delle due parti sulle reciproche malefatte, relative all’appartamentino di Montecarlo affittato al cognato, alla villetta di Arcore frutto dell’eredità Casati Stampa curata all’epoca da Cesare Previti, nonché a tutta la turba di donne variamente libere e di sgallettate varie, siano emerse questioni più propriamente di ambito politico ed economico.

Taluni degli scudieri di Fini hanno avuto infatti la delicatezza di intimare al Cavaliere, responsabile primario delle loro fortune politiche, altrimenti starebbero ancora per strada a distribuire volantini, di fare “chiarezza” sui suoi rapporti con Putin e Gheddafi. Se nel caso del colonnello libico l’astio dei finiani è piuttosto scontato e deve essere collegato al rammarico nostalgico dei bei tempi perduti del ventennio fascista, seguiti a “Tripoli bel suol d’amore”, che in realtà era un bel suol di petrolio, nel caso di Putin l’uscita dei finiani denota che dietro c’è ben l’altro. Ci sono interessi economici e finanziari che si sviluppano da Wall Street, dalla City e dalla Commissione europea di Bruxelles. Gruppi che operano contro il nostro Paese per distruggerne ogni autonomia sullo scenario internazionale, per cancellarne l’apparato industriale e per ridurlo ad un semplice mercato di sbocco e di assorbimento per i prodotti e le merci di altri Paesi.

Niente di nuovo sotto il sole comunque. Anche Enrico Mattei, nell’autunno del 1962 venne assassinato da ambienti “atlantici” perché la sua azione, che era votata ad assicurare l’indipendenza energetica, economica e politica al nostro Paese, cozzava con gli interessi di Israele, delle compagnie petrolifere anglo-americane e anglo-olandesi che si consideravano le uniche titolari del diritto di trattare con i Paesi arabi produttori di petrolio e di gas.

Oggi, con il legame di ferro tra Berlusconi e Putin, la questione si ripropone. Ed in un certo senso, Berlusconi presenta per certi ambienti economici internazionali maggiori problemi di quelli sollevati a suo tempo da Mattei. Questo perché, oggi che il Muro di Berlino e il comunismo sono crollati, il rapporto tra Italia e Russia, tra Europa continentale e Russia, può dispiegarsi in tutte le sue potenzialità geopolitiche. La Germania, che da sempre è la prima potenza economica e industriale dell’Europa occidentale lo aveva capito da tempo. Prima con Helmuth Kohl e poi con Gerhard Schroeder. Ed anche Angela Merkel, che era inizialmente più fredda e più filo-Usa, ha dovuto anche lei prendere atto che il legame tra Unione europea e Russia è fisiologico e che è senza senso e antistorico continuare a cianciare di solidarietà “atlantica” quando gli stessi Stati Uniti da diversi decenni hanno deciso di privilegiare semmai il rapporto “pacifico” e i legami con Cina, Giappone e Corea e le altre “tigri asiatiche”.

Così oggi, dobbiamo assistere agli attacchi contro il legame tra il Cavaliere e il suo sodale Putin, alla guida di una Russia che viene generalmente indicata dai giornali dell’Alta Finanza, e ultimamente pure dai finiani, come una dittatura spietata nella quale i dissidenti vengono assassinati e sbattuti in prigione, come il famigerato truffatore Mikhail Khodorkovsky, l’ex proprietario della Yukos, che, guarda caso era un prestanome della Exxon, la maggiore compagnia petrolifera del mondo. In realtà, quando si attacca Berlusconi per i suoi rapporti con la Russia e con Putin, si vuole puntare alla liquidazione dell’Eni sul panorama internazionale. Quell’Eni che rappresenta un nostro secondo Ministero degli Esteri, con una forza maggiore della Farnesina, ed in grado di trainare la penetrazione di altre aziende italiane nei Paesi produttori. Una forza che l’Eni si è conquistata in decenni di attività, con un approccio “non colonialista” mutuato da Enrico Mattei, grazie al quale può vivere ancora oggi di rendita.

Diventa così quanto mai significativo che la Commissione europea abbia aperto una procedura di infrazione contro l’Italia per l’utilizzo della “golden share” nel caso dell’Eni. Il Tesoro detiene infatti il 20,321% e la Cassa Depositi e Prestiti (controllata al 70% dallo stesso Tesoro) ne controlla un 9,999. Grazie alla “golden share” il governo italiano può nominare presidente ed amministratore delegato dell’Eni ed indirizzarne quindi la gestione. Questo fatto non sta bene ai tecnocrati di Bruxelles, chi più e chi meno sul libro paga delle majors anglosassoni. Se quindi, alla fine della procedura, Bruxelles dovesse sanzionare l’Italia, per l’Eni si aprirebbero scenari molto foschi dal punto di vista legale. La stessa querelle sollevata dal fondo di investimento Knight Winke (azionista dell’Eni con un misero 1%) che continua ad insistere che l’Eni debba vendere la Snam Rete Gas, in maniera tale da offrire un surplus di dividendi ai gentili azionisti, si inserisce in questo attacco all’Eni che in realtà è un attacco alla alleanza economica e strategica tra Russia e quei Paesi della Ue che nutrono un approccio più continentale che atlantico. Questo perché, l’Eni senza la Snam sarebbe un’altra cosa e anche l’importanza di gasdotti come il South Stream ne verrebbe vanificata.

Non è un caso quindi che proprio dai finiani siano arrivate dichiarazioni di appoggio ad un gasdotto alternativo come il Nabucco, pensato dagli atlantici in funzione antirussa in quanto dovrebbe portare in Europa occidentale il gas dell’Azerbaijan. Diventa così gioco forza concludere che se un Fini dovesse mai arrivare a guidare un governo di “unità nazionale” o “tecnico” , per sostituire mettiamo un Berlusconi indagato a Caltanisetta per la strage Borsellino (il siciliano Granata che dice?), una delle prime mosse sarebbe quella di mettere in vendita il 30% dell’Eni, con tanti saluti all’indipendenza economica ed energetica nazionale. In questo, il cognato di Tulliani sarebbe in buona compagnia. Anche il suo potenziale alleato, in nome della legalità, Pierferdinando Casini, capo dei centristi dell’Udc, ha più volte affermato che il Tesoro dovrebbe vendere l’Eni per tamponare in tal modo i buchi del debito pubblico.

Non è nemmeno un caso che prima della pausa estiva di Ferragosto, sia sceso in campo anche Luca di Montezemolo, ex presidente della Fiat e di Confindustria, che ha esternato tutta la sua “delusione” per l’azione di Berlusconi come capo del governo. Quel Montezemolo, fondatore della Fondazione Italia Futura che la cui attività è quella di offrire suggerimenti sul come rimettere in piedi il nostro Paese, sia dal punto di vista economico che politico. Soluzioni che ovviamente implicano massicce iniezioni di liberalizzazioni e di privatizzazioni. Insomma di Mercato. Quel Mercato che la Fiat aveva visto per anni come il fumo negli occhi. E se Montezemolo ha assicurato di non avere velleità di scendere in prima persona in politica, è lecito nutrire qualche dubbio, proprio perché si tratta di un personaggio che bene si adatterebbe a guidare un governo “tecnico”. Più che per le sue capacità, che sono tutte da verificare (si tratta più che altro di un uomo immagine), per la speranza di rivenderlo a livello internazionale. Una operazione di maquillage che durerebbe però lo spazio di un mattino in quanto non permetterebbe di risolvere i problemi del nostro Paese.

Filippo Ghira (f.ghira@rinascita.eu)
Fonte: www.rinascita.eu
Link: http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=3674

martedì 27 aprile 2010

LETTERA APERTA ALL’ASSESSORE PROVINCIALE STEFANELLI

Caro assessore provinciale,
ho avuto più di una perplessità prima di rispondere alla lettera aperta che ella ha rivolto per sollecitare un cammino politico nuovo, che potesse rappresentare la sintesi del voto elettorale per il rinnovo del consiglio comunale di Minturno.
Le perplessità derivavano soprattutto dal fatto che l’analisi e le obiezioni che si facevano corpo nella mia mente erano fondamentalmente faziose, limite, peraltro, superato nel momento stesso che pubblicamente ne faccio ammenda.
Capisco bene che il suo sforzo è quello di dare una prospettiva amministrativa a chi tale prospettiva viene negata dai numeri, e i numeri in politica sono estremamente importanti e fondamentali.
Sono importanti e fondamentali nell’assegnare una vittoria ad un sindaco, ma sono altrettanto importanti e fondamentali quando servono per approvare in consiglio gli atti senza i quali un’amministrazione non può andare avanti; e mi riferisco ai passaggi chiave del bilancio di previsione, dei riequilibri di bilancio e dell’approvazione del conto di gestione, per non parlare di quelli necessari per mantenere valide le assisi consiliari.
Di fatto la bocciatura delle “maggioranze politiche”, cui sostituire le “maggioranze di intenti” servirebbe appunto a questo: a dare i numeri all’amministrazione Galasso per governare. E anche se lo scopo, il bene del cittadino, è encomiabile, sicuramente le vie, o meglio le soluzioni, per raggiungerlo sono diverse, altrimenti Galasso poteva continuare ancora a restare nella giunta Sardelli, Chianese idem, Ruberto idem, la destra continuava a stare nella maggioranza di centro destra. Da sempre è la politica ad ispirare le strade, il singolo a percorrerle! Ma ammesso che questa difficoltà fosse superabile, è proprio il patto generazionale ad essere ancora più debole, in quanto pone di fronte interlocutori politici o civici, che, per tutta la buona volontà che potrebbero impegnare, è inimmaginabile possano essere protagonisti di quella fase che ella chiama di pacificazione. Mi spiego meglio: il risultato elettorale amministrativo del comune di Minturno è il figlio di decisioni nate altrove! Prima di averlo deciso l’elettorato di Minturno, l’hanno deciso in quello di Latina, ove si è costituita una cosiddetta filiera, se così vogliamo chiamarla, costituita dal senatore Fazzone, dal presidente della provincia Cusani, dal sindaco di Formia, nonché presidente dell’assise provinciale, Michele Forte, e dal capogruppo pdl in assise provinciale Paolo Graziano!
Se non fosse stato così, la coppia Fazzone-Cusani non avrebbe ristretto gli spazi elettorali al candidato Del Balzo, negandogli l’elezione nell’assise regionale per una manciata di voti!
Se non fosse stato così Michele Forte non avrebbe avallato il passaggio dell’UDC locale in opposizione aperta alla coalizione di centro destra!
Se non fosse stato così la coppia Forte£Forte non avrebbe avallato l’attacco pesante che ella, da assessore provinciale, ha fatto alla giunta Sardelli sui temi ambientali all’indomani del lancio di “Progetto Futuro”, associazione che magicamente si è trasformata nell’agone amministrativo in soggetto politico.
Se non fosse stato così, il capogruppo pdl in provincia che garantisce politicamente la sua presenza in giunta, Paolo Graziano, non avrebbe reagito con l’assordante silenzio a quanto ella andava affermando.
Se non fosse stato così, il capogruppo pdl in provincia Paolo Graziano non aveva motivo per negare la sua candidatura nelle liste del pdl al comune di Minturno!
Con tutte queste premesse parlare di pacificazione sembra essere utopico!
Nel momento che ella parla di superare la maggioranza politica, ammette una sconfitta pesantissima della sua stessa idea di Progetto Futuro, che pur sempre è stata l’unica novità che concretamente si è respirata nella competizione amministrativa di Minturno!
Nel momento che ella parla di maggioranza di intenti, sembra ammettere la negazione di ogni iniziativa politica al suo movimento!
Ecco perché la sua proposta di patto generazionale è ancora più debole!
Ecco perché bisogna ritornare alla maggioranza politica, anzi bisogna ritornare alla politica: e l’unica maggioranza politica uscita dalle elezioni comunali di Minturno indica un vasto schieramento di centro destra che va dal Pdl, a Minturno Domani, a Nuova Area, a Volare, all’Udc e, perché no, ai consiglieri della lista Galasso Sindaco.
Questa rappresenta l’unica sintesi possibile dai dati incrociati del 28 marzo e dell’11 aprile.
Forse questo è il vero messaggio politico che il corpo elettorale ha voluto mandare alla classe politica locale.
Ripartire dalla politica per dare una risposta alle domande dei cittadini. Sono sicuro che in questo campo il suo movimento possa essere protagonista, così come è fondamentale che il Pdl riallacci le fila della politica, a livello locale, a livello comprensoriale e a livello provinciale, dopo che siano state fissate regole condivisibili e condivise, e dopo che le stesse siano diventate punto di riferimento per tutti, e mi riferisco primi tra tutti a Pdl e Udc!
Cordialmente


Matteo De Cesare
Vice presidente della XVII comunità montana



Ps: ma se a Formia fosse accaduto un qualcosa di analogo, per esempio SANDRO BARTOLOMEO SINDACO e maggioranza politica alle liste del centro destra, avrebbe proposto un patto generazionale?, ovvero dobbiamo pensare ad un mero esercizio di stile, nato da quel peccato tipico della sinistra salottiera che si ritiene unica depositaria dell’etica nella pubblica amministrazione?

venerdì 23 aprile 2010

Dalla M.A.F.I.A. di Giuseppe Mazzini al generale Albert Pike

«Nel secolo scorso, la finanza britannica, protetta dai cannoni inglesi, controllava il traffico mondiale di droga. I nomi di queste famiglie ed istituzioni sono noti a tutti gli studenti di storia: Matheson, Keswick, Swire, Dent, Baring e Rothschild; Jardine Matheson, Hongkong and Shanghai Bank, Charterer Bank, Peninsular and Orient Steam Navigation Company. (I poteri occulti) dirigono un’Anonima Assassini mondiale tramite le società segrete: l’Ordine di Sion, la Mafia di Mazzini, le Triadi (che significa: “Società dei tre puntini”), dette anche le “Società del Paradiso in Cina”».(1)
«Se analizziamo come la Mafia arrivò negli Stati Uniti, scopriamo che questa storia è inseparabile da quella dell’Ordine di Sion. Mazzini, il padrino della Mafia in Italia, rispondeva direttamente al più importante esponente del sionismo britannico: il Primo Ministro ebreo Benjamin Disraeli (l’uomo che era sfuggito alla prigione per debiti, grazie all’aiuto datogli dalla famiglia Rothschild), e veniva finanziato dai principali banchieri ebrei come i Rothschild e i Montefiore.

Mazzini, a sua volta, quando dovette mandare i suoi luogotenenti in America, dopo aver fatto esperienza all’interno della “Giovine Italia”, trovò la strada già spianata dal lavoro fatto da persone come l’ex generale sudista Albert Pike e l’Alta Massoneria ebraica dei B’nai B’rith» (2).
«I primi italiani che misero piede in America seguirono le orme dei commercianti di tessuti che avevano posizioni di primo piano all’interno dell’Alta Massoneria ebraica dei B’nai B’rith. Anche New Orleans, la prima base dei Lehman e dei Lazard, divenne il punto di raccolta dei “picciotti” di Mazzini. Durante il periodo delicato e caotico, che seguì la Guerra Civile americana, gli uomini legati a Mazzini agirono come veri e propri sabotatori del processo di pacificazione della repubblica americana.
Quest’opera di sabotaggio li vide impiegati nella guerriglia condotta dal generale Pike contro il Governo federale di Lincoln e costituì uno dei primi esempi di attività mafiosa negli Stati Uniti. Operazioni della malavita a New Orleans, per conto della mala palermitana, che facevano capo a Mazzini e, tramite lui, a Disraeli. Che dietro il crimine ci fossero persone al di sopra di ogni sospetto era di pubblico dominio.

La parola “M.A.F.I.A.”, infatti, era spiegata con l’acronimo (3):

M=Mazzini
A=Autorizza
F=Furti
I=Incendi
A=Attentati.

Le prime reti mazziniane cominciarono ad essere attive nel periodo precedente alla Guerra Civile (1860-1865). “I gruppi mafiosi di New Orleans, New York e Palermo erano società separate - scrive l’importante storico di quel periodo, D. L. Chandler - ma cooperavano strettamente. Un membro che riceveva adeguati appoggi poteva essere spostato da una città all’altra, da una famiglia all’altra” (4).

Verso la fine della Guerra Civile americana, la Mafia di Disraeli (e quindi di Mazzini - n.d.r.) era capeggiata da un certo Joseph Macheca, capo di una banda che, secondo testimonianze dell’epoca, svolgeva un’attività che era indistinguibile da quella del Ku Klux Klan (di cui uno dei fondatori fu proprio il generale Albert Pike - n.d.r.). Nel 1868, Macheca organizzò, a New Orleans, la campagna elettorale presidenziale a favore del candidato democratico Horatio Seymour contro il repubblicano Ulysses S. Grant, il generale che aveva portato alla vittoria il Nord e che divenne, poi, il Presidente degli USA. I fondi e le direttive politiche arrivavano a Seymour da August Belmont, colui che i Rothschild designarono come loro rappresentate ufficiale negli Stati Uniti.

Il giornale di New Orleans “Picayune” ci descrive la campagna elettorale nei seguenti termini: “Questo popolare e singolare gentiluomo (Macheca) aveva organizzato e dirigeva una compagnia formata da 150 siciliani, conosciuta col nome di Innocenti. La loro uniforme era costituita da un mantello bianco con una croce maltese sulla spalla sinistra. Giravano armati e quando marciavano per le strade sparavano ad ogni negro che vedevano. Si lasciavano dietro le spalle una scia di decine di negri uccisi. Il Generale James E. Steadman, che coordinava la campagna (elettorale di Seymour) vietò altre parate ed il gruppo fu sciolto”(5)» (6).

«Il gruppo finanziario dei Seligman, insieme ad altre banche sioniste di Wall Street, appoggiò come candidato presidenziale democratico, Seymor, quello scelto da August Belmont (l’uomo dei Rothschild negli Stati Uniti), e gli prepararono un programma in cui veniva richiesta l’abolizione del proclama di emancipazione di Lincoln con il quale era stata abolita la schiavitù»(7).

Sullo stesso libro, poche pagine prima, a proposito della famiglia Seligman, leggiamo: «... nel 1843, fu fondata l’Alta Massoneria Ebraica dei B’nai B’rith, chiamata anche “Gran Loggia Costituzionale dell’Ordine dei Figli del Patto d’Alleanza”, come branca riconosciuta dalla Massoneria di Rito Scozzese Antico ed Accettato, per gli ebrei negli Stati Uniti. Il B’nai B’rith ebbe quartier generale al numero 450 di Grand Street, a Manhattan, nella casa di Joseph Seligman, un ricco mercante “commerciante di tessuti”. Seligman è un nome che si incontra tuttora a Wall Street, insieme a quello dei suoi contemporanei, quali August Belmont, Loeb, Schiff e Lazard. (...). La funzione dell’Alta Massoneria dei B’nai B’rith era quella di fungere da copertura ad operazioni di spionaggio per conto dei Montefiore e dei Rothschild. L’organo americano di tale organizzazione, il “Menorah”, non poteva certo nascondere i suoi legami coi Rothschild e, quindi, preferì ostentarli: “In tutti i paesi, il nome dei Rothschild è sinonimo di onore e generosità e non ci sono altri nomi in Europa che godano di una così meritata e vasta popolarità...”» (8).

«Le stesse banche (associate ai Seligman) controllavano, poi, il generale Albert Pike ed i suoi tagliagole incappucciati, il Ku Klux Klan (che Macheca ed i suoi gangster si davano gran pena ad imitare, croce di Malta inclusa). Pike e Macheca e le loro unità irregolari scatenarono una tale ondata di violenza in tutto il Sud degli Stati Uniti da distruggere, pochi anni dopo il suo assassinio, tutto il programma di ricostruzione che Lincoln aveva messo a punto.
I dati storici mostrano che il gruppo di Macheca a New Orleans, che aveva cominciato la sua carriera sparando ai negri per conto delle banche filo-sudiste di New York, aveva dimostrato di che pasta era fatto. Egli divenne il punto di partenza per l’organizzazione della malavita negli Stati Uniti.

Fu Macheca che s’incaricò di preparare il terreno per Giuseppe Esposito, l’uomo che, per conto di Mazzini, diede la prima base organizzativa alla struttura della MAFIA negli USA. Molto legato a Mazzini, Esposito lasciò la Sicilia verso il 1870 ed arrivò a New Orleans, dove prese contatti con Macheca. Esposito fece un giro organizzativo in tutti gli Stati Uniti, riunendo gruppi di società segrete composte da italiani e creando, ex novo, reti di comunicazione tra gruppi di città diverse. Il risultato del viaggio di Esposito fu di trasformare le società segrete di siciliani in cellule del crimine organizzato.

Il rappresentante di Mazzini (Esposito) aveva un’autorità assoluta sui padrini locali, perfino sul capo dell’organizzazione madre di New Orleans (Macheca)» (9).
Secondo uno storico, “L’egemonia di Macheca sulla Mafia fu messa in ombra, per un breve periodo, dal 1879 al 1881, quando egli obbedì, temporaneamente, ad Esposito” (10)» (11).
Ma avvenne un fatto che impose una riorganizzazione della Mafia negli Stati Uniti: «“Macheca fu linciato dalla folla di New Orleans che lo strappò da una prigione, in cui era stato rinchiuso per l’assassinio di un poliziotto”6. Alla sua morte, le redini del comando furono prese dal suo braccio destro, Charles Matrenga. La scomparsa di Macheca suscitò un’impressione profonda sulle varie organizzazioni della Mafia e, forse, fu a questo punto che venne presa la decisione di “legalizzarsi”, e cioè di intraprendere attività legali come paravento, inaugurando una strategia che fu molto seguita da allora in poi.

Per poter portare a termine questa operazione, la banda di Matrenga si rivolse all’aristocrazia sionista.
Fu un ebreo rumeno, Samuel Zemurray, un immigrato proveniente dalla Bessarabia che, nel 1900, aiutò a trasformare le cosche di New Orleans in “affari puliti”. Zemurray riuscì ad ottenere un finanziamento dal solito gruppo di banche di New York e Boston, per acquistare una parte della flotta mercantile della banda di Macheca. Uno storico commenta: “La flotta di Macheca si fuse con altre quattro linee di navigazione per formare la “United Fruit Company”, che rimane una delle più grosse industrie di tutti gi Stati Uniti”(12).
La United Fruit - ridenominata recentemente United Brands Company - sceglie tradizionalmente i suoi dirigenti tra l’élite dei banchieri sionisti di New York. Nonostante tutto, la banda dei siciliani era ricordata con nostalgia. “Quando Charles Matrenga morì nel 1943, l’intero Consiglio di amministrazione della United Fruit presenziò ai funerali”(13)».

Mazzini e Albert Pike
Alla morte del capo internazionale della Massoneria, Lord Palmerston, avvenuta nel 1866, Mazzini prese contatti con uno strano personaggio, il generale sudista e schiavista Albert Pike.
Al pari di Mazzini, il Pike faceva parte della rete di Lord Palmerston e, nei decenni precedenti, si era conquistato la fama di massimo esperto, e sacerdote delle forme occulte più esoteriche e sataniche.
«Nato nel 1809 a Boston, Albert Pike divenne uno degli avvocati più famosi del Sud. Egli parlava e scriveva 16 lingue. Entrato in massoneria nel 1850, nel 1859 divenne Gran Maestro del Rito Scozzese Antico ed Accettato, e cioè il Capo supremo della Massoneria americana» (14).
«Albert Pike è uno degli individui fisicamente e moralmente più repellenti della storia americana. Orribilmente obeso (pesava più di 140 chili), Pike era conosciuto nel suo Stato dell’Arkansas come un professionista di satanismo. Le sue note tendenze sessuali includevano il sedersi a gambe divaricate su un trono fallico, eretto nel bosco, con intorno una masnada di prostitute, con le quali consumava cibo e liquori, fino a completo stordimento. (...).

Negli anni 1850, Pike entrò in politica diventando una delle voci più sguaiate e intolleranti della retorica razzista. (...). Nel 1858, infatti, Pike, insieme ad undici collaboratori, pubblicò una circolare che chiedeva l’espulsione di tutti i negri e i mulatti dall’Arkansas, citando “l’indolenza e bestialità della loro razza degradata”, “la loro immoralità, pigrizia e sudiciume” e chiamando l’africano un essere “insignificante e depravato simile ad un animale”.
Dal 1858 al 1860, Albert Pike creò un Supremo Consiglio del Rito Scozzese estendendolo, per la prima volta, su tutto il Sud degli Stati Uniti» (15).

Alcuni anni prima, nel 1854, uno stretto collaboratore di Albert Pike, un certo Judah Benjamin, creò i “Cavalieri del Circolo d’Oro” (“Knights of the Golden Circle”). Le prime operazioni di questi “Cavalieri” consistettero nell’addestramento paramilitare di terroristi in tutta l’America Centrale, con lo scopo di provocare una guerra tra gli Stati Uniti e la Spagna , che governava quella zona. La fase successiva fu l’organizzazione di un colpo di Stato negli Stati Uniti che doveva coincidere con l’elezione del presidente Abramo Lincoln, nel 1960.

Eletto Lincoln, Albert Pike, dalla sua posizione di Capo della Massoneria americana, diresse l’insurrezione del Sud che sfociò nella sanguinosa Guerra di Secessione americana (1860-1865).
« La Carolina del Sud, sede del Consiglio Supremo della Massoneria di Pike, dichiarò la secessione il 20 dicembre 1860, subito dopo l’elezione di Lincoln.
Lo stesso giorno, i leaders della “Giovane America” di Mazzini, del Mississippi, chiesero le elezioni e ottennero la secessione.
In Florida, il senatore David Yulee, esponente di spicco della “Giovane America” fece votare la secessione, il 22 dicembre.
In Alabama furono gli esponenti di spicco dei “Cavalieri del Circolo d’Oro” a dirigere la secessione del 24 dicembre.
In Georgia, la secessione del 2 gennaio 1861 fu pilotata da Robert Toombs, l’amico più caro di Albert Pike, divenuto poi membro del Consiglio Supremo.
In Louisiana, fu John Slidell, intimo di Judah Benjamin, creatore dei “Cavalieri del Circolo d’Oro” e Pierre Soulé della “Giovane America” a dirigere il voto di secessione del 7 gennaio 1861.
Nel Texas, il governatore Sam Houston rifiutò il voto di secessione dichiarandolo illegale. Allora, migliaia di “Cavalieri del Circolo d’Oro”, armati, deposero Houston e, in febbraio, fecero votare la secessione, con una partecipazione di meno di un decimo della popolazione.

Gli oppositori alla secessione riportarono vistose vittorie in Virginia, Carolina del Nord, Tennessee, Arkansas, Missouri, Kentucky, Maryland e Delaware.
La sconfitta dell’Arkansas creò un imbarazzo personale ad Albert Pike che, all’udire la notizia della sconfitta, si precipitò nello Stato per arringare i delegati: «Le cose sono giunte a tal punto che voi avete solo una possibilità: o voi uscite dall’Unione volontariamente, o sarete cacciati fuori. La Carolina del Sud vi trascinerà fuori...».
Pur avendo votato di rimanere nell’Unione, la Carolina del Nord, la Virginia , il Tennessee e l’Arkansas furono trascinati nella Guerra di secessione dagli uomini di Albert Pike» (16).

«Durante la Guerra di Secessione, Pike fu brigadiere generale delle truppe sudiste e comandava un esercito costituito da indiani di ben otto tribù. Al suo comando, queste truppe commisero massacri d’una crudeltà e ferocia tale che l’Inghilterra minacciò persino di intervenire “per ragioni umanitarie”. Il Presidente sudista Jefferson Davis, allora, fu costretto a prendere provvedimenti contro Albert Pike intimandogli di disperdere l’esercito indiano. Dopo la guerra, per i suoi crimini efferati, Pike fu giudicato colpevole di tradimento da una Corte Marziale e imprigionato. Il presidente americano Andrew Johnson, massone subordinato di Albert Pike, però, il 22 aprile 1866, lo graziò, mentre la stampa americana mantenne, per ben nove mesi, un silenzio totale su questa notizia» (17).

«Il generale Albert Pike passò sotto l’influenza di Mazzini dopo essere stato contrariato dal presidente sudista Jefferson Davies che disperse le sue truppe indiane, per le atrocità commesse sotto il pretesto di legittime azioni belliche. Pike accettò l’idea di un Govero Mondiale e, alla fine, divenne il capo del Clero Luciferiano. Tra il 1859 e il 1871, Pike elaborò i dettagli di un piano militare, che prevedeva tre guerre mondiali, e tre grandi rivoluzioni che egli riteneva indispensabili per promuovere il “piano” degli Illuminati e portarlo a compimento, verso la fine del secolo ventesimo» (18).

«L’assassinio di Abramo Lincoln fu perpetrato dall’estremista ebreo John Wilkes Booth (Botha), un massone del 33° grado, il 14 aprile 1865 in Washinglton D.C., solo cinque giorni dopo la fine della Guerra civile americana. (...). Izola Forrester, nipote di Booth, nel suo libro “This One Mad Act” (1937), scrisse che Booth apparteneva alla Loggia dei “Cavalieri del Circolo d’Oro” come pure al movimento rivoluzionario di Mazzini, “ La Giovane America ”. Izola Forrester rivelò, in dettaglio, che i massoni erano coinvolti nell’assassino del presidente. Il successivo assassinio di Wilkes Booth fu organizzato da Judah P. Benjamin, un massone di alto grado e agente dei Rothschild. Egli era il Capo dei Servizi segreti della Confederazione del Sud. Dopo l’assassinio, egli scappò in Inghilterra»(19).

Nel dicembre 1865, il generale Albert Pike, insieme al generale John J. Morgan e ad un ristretto gruppo di ufficiali sudisti, trasformava, nella cittadina di Pulaski del Tennessee, i “Cavalieri del Circolo d’Oro” nei “Cavalieri del Ku Klux Klan” (KKK), (in greco kuklox significa “cerchio” o “circolo”), i razzisti del Sud degli Stati Uniti, che conosciamo ancora oggi con i loro cappucci bianchi e le croci di fuoco.
«Albert Pike, che era chiamato “il Diavolo del XIX secolo”, era ossessionato dall’idea della supremazia mondiale. Quando divenne massone del 33° grado, e Capo degli Illuminati dell’Arkansas, egli ideò un piano per prendere il controllo del mondo attraverso tre Guerre mondiali ed altre grandi rivoluzioni» (20).
Anche Giuseppe Mazzini era ossessionato dall’idea di un potere mondiale.

Nel suo Manifesto del marzo 1848, Mazzini affermava: «Essendo l’Austria la più grande negatrice delle nazionalità europee, essa deve scomparire. Guerra contro l’Austria! L’iniziativa di questa rivoluzione europea mondiale, che deve portare alla nascita degli Stati Uniti d’Europa, appartiene al potere dell’Italia; pertanto è il dovere dell’Italia. “ La Roma dei Popoli” deve, nella sua fede repubblicana universale, unire l’Europa e L’America, e tutte le altre parti del mondo abitato, in un potere mondiale finale onnicomprensivo» (21).
Sin dall’età di 23 anni, come ci informa il massone Doria, Giuseppe Mazzini concepì il suo progetto di assassinare Sua Maestà l’Imperatore d’Austria e il Principe di Metternich, e nei primi anni di militanza nella Carboneria, egli frequentò assiduamente l’omicida Sgarzaro (che si era vantato di aver annegato ben 53 frati gettandoli, legati a due a due, nel mare aperto dalla sua nave), e il futuro assassino Argenti che aveva cercato di interessare la Carboneria al suo piano di assassinare il Principe di Metternich.

Mazzini e la dottrina dell’assassinio
Sin dall’età di 23 anni, come ci informa il massone Doria, Giuseppe Mazzini concepì il suo progetto di assassinare Sua Maestà l’Imperatore d’Austria e il Principe di Metternich, e nei primi anni di militanza nella Carboneria, egli frequentò assiduamente l’omicida Sgarzaro (che si era vantato di aver annegato ben 53 frati gettandoli, legati a due a due, nel mare aperto dalla sua nave), e il futuro assassino Argenti che aveva cercato di interessare la Carboneria al suo piano di assassinare il Principe di Metternich.
Fu con la “Giovine Italia”, fondata nel 1831, che Giuseppe Mazzini, “nel suo stile magniloquente”, mise a punto la sua “dottrina dell’assassinio” politico, la quale colpiva, in modo spietato, non solo i traditori e chi non obbediva agli ordini: “dovranno essere uccisi sul posto”, “pugnalati senza alcuna pietà”, “abbattuti da una mano invisibile”, ma anche gli avversari politici, per i quali il titolo di “tiranno”, emesso da uno dei Tribunali segreti da lui controllati, era sufficiente “per far mettere a morte ogni persona colpita da anatema».
«Un gran numero di ispettori di polizia, generali e uomini politici furono assassinati su ordine di questi Tribunali, e le Logge massoniche fornivano la loro assistenza in questo lavoro»(24).

La “dottrina dell’assassinio” politico di Mazzini fu persino denigrata, nel 1838, dai capi occulti dell’Alta Vendita (il vertice della Carboneria) con queste parole: «A cosa serve un assassinio? (...) Un colpo di pugnale non significa niente, non fa nessun effetto. Che importa al popolo che il sangue di un operaio, di un artista, d’un gentiluomo o anche di un principe sia stato versato in forza di una sentenza di Mazzini o di alcuno dei suoi sicari che si divertono in questo modo?»(25).
Nel 1851, alla notizia del colpo di Stato di Napoleone III, Adriano Lemmi lasciò l’America, dove si trovava con Kossuth, per andare a Londra e diventare l’esecutore degli ordini di assassinio di Mazzini, decretati dal suo “Comitato Centrale Democratico Europeo”, titolo che Mazzini aveva dato alla “Giovane Europa”.

Lemmi si vantò sempre di essere il valido emissario di Mazzini in un gran numero di assassinii, tanto che Mazzini stesso lo chiamava: «Il mio piccolo giudeo che vale dieci buoni diavoli...».
In quegli anni, Mazzini e i capi di questo “Comitato Centrale Democratico Europeo”: Kossuth, A.A. Ledru Rollin, Felice Orsini, Alexander Herzen e Michele Bakunin furono accusati, insieme a Lemmi, di essere i responsabili della maggior parte delle sommosse e degli attentati terroristici che costellarono l’Europa in quel periodo.
Il 4 gennaio 1852, Mazzini e il suo “Comitato”, decretarono la condanna a morte del Duca di Parma Carlo III; il 26 marzo, Carlo III cadeva sotto i colpi del sicario di cui Lemmi aveva stimolato il fanatismo. A fine giugno dello stesso anno, sempre a Parma, Lemmi provocò la rivoluzione del 22 luglio.

Il 21 ottobre 1852, Lemmi ispirò il tentato assassinio del ministro Baldasseroli, presidente del Consiglio del Gran Duca di Toscana; fu sempre lui che spedì dalla Svizzera il proclama di Mazzini che provocò l’insurrezione di Milano del 6 febbraio 1853; fu lui, sempre su ordine di Mazzini, che armò il braccio del fanatico che attentò alla vita dell’Imperatore d’Austria, il 18 febbraio 1853.
Nel 1855, Lemmi si recò a Roma e, poco dopo, il 12 giugno, vi fu un tentato assassinio del cardinale Antonelli; il 30 giugno, Lemmi pubblicò a Genova un manifesto di Mazzini per spingere il popolo all’insurrezione; tornò, poi a Roma dove, il 9 luglio, ci fu un tentativo di assassinio su Padre Beckx, Generale dei Gesuiti.

Lo stesso anno, Lemmi e Orsini trasmisero le istruzioni di Mazzini al Comitato Rivoluzionario di Milano, per un’insurrezione che doveva inaugurarsi con la strage di tutti gli ufficiali del presidio.
Verso il settembre 1856, il “Comitato Centrale D. Europeo” di Mazzini decise di assassinare il re di Napoli, e di scatenare contemporaneamente una rivoluzione in Sicilia. Scoppiata la rivoluzione in Sicilia, Lemmi scelse il sicario: Agesilao Milano che, l’8 dicembre 1856, mentre re Ferdinando passava in rivista l’esercito, gli vibrò due violenti colpi di baionetta, senza però ucciderlo. Il sicario fu condannato a morte, mentre Mazzini gli fece coniare una medaglia commemorativa, qualificandolo come “martire”!
Per l’anno 1857, Mazzini e il suo “Comitato” decretarono e misero in atto, con Lemmi la triplice insurrezione di Genova del 29 giugno, di Livorno del 30 giugno, e di Napoli del 1° luglio
(…)

Note
1 K. Kalimtgis, D. Goldman, J. Steinberg, “Droga S.p.a.”, Edizioni Logos, Roma 1978, p. 12.
2 Idem, p. 41.
3 Charles William Heckethorn, “The Secret Societies of All Ages and Countries”, vol. I e II, 1875 (New York University Books Inc., 1965). Si veda anche: David Leon Chandler, “Brothers in Blood”, New York, E.P. Dutton Co. Inc., 1975, p. 31.
4 David Leon Chandler , op. cit.., p. 103.
5 Idem, p. 75.
6 Kalimtgis, Goldman, Steinberg, op. cit., pp. 42-43
7 K. Kalimtgis, D. Goldman, J. Steinberg, “Droga S.p.a.”, Edizioni Logos, Roma 1978, p. 43.
8 Cfr. Benjamin Peixotto, ed. “The Menorah”, organo ufficiale del B’nai B’rith, New York, 1° sett. 1886.
9 Kalimtgis, Goldman, Steinberg, op. cit., pp. 43-44.
10 Cfr. D. L. Chandler, “Brothers in blood”, p. 79.
11 Kalimtgis, Goldman, Steinberg, op. cit., p. 44.
12,13 Cfr. D. L. Chandler , op. cit., pp. 95-98.
13 Kalimtgis, Goldman, Steinberg, op. cit., pp. 44-45.
14 Cfr. Juri Lina, “Architects of deception”, Referent Publishing, Stoccolma 2004, p. 196.
15 Cfr. Anton Chaitkin, “Treason in America ”, New Benjamin Franklin House, New York 1985, pp. 234-235.
16 Idem, pp. 237-246.
17 Cfr. Juri Lina, “Architects of deception”, Referent Publishing, Stoccolma 2004, p. 196.
18 Cfr. W. Guy Carr, “Pawns In The Game”, Cpa Pubblisher, p. XV.
19 Cfr. Juri Lina, op. cit., p. 196.
20 Cfr. Juri Lina, op. cit., p. 197.
21 Cfr. G. Mazzini, “Opere” Volume XIII, Roma 1884, p. 179.
22 Cfr. Mons . G.E. Dillon, “Grand Orient, Freemasonry unmasked”, Christian Book Club of America, p. 104-105.
23 Cfr. “Lettera di Vindice al Nubius” del 9 agosto 1838.
24 Cfr. Mons . G.E. Dillon, “Grand Orient, Freemasonry unmasked”, Christian Book Club of America, p. 104-105.
25 Cfr. “Lettera di Vindice al Nubius” del 9 agosto 1838.

giovedì 15 aprile 2010

LETTERA APERTA AL PRESIDENTE POLVERINI.

AL PRESIDENTE DELLA REGIONE LAZIO RENATA POLVERINI

per conoscenza AL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI
SILVIO BERLUSCONI





Gentilissima Presidente,
il video di striscia la notizia di ieri sera è ancora vivo nelle nostre memorie, ma è ancora più viva l’amarezza che ha generato in tutti noi, in quanto ha offeso l’intelligenza di migliaia e migliaia di persone, che, pur non andando a nuoto a Ponza e Ventotene, hanno creduto nel Suo progetto e nella Sua persona e nel segreto dell’urna e nel silenzio hanno creduto di affidare Bene a Lei il loro consenso e al PDL la loro preferenza.
Questo silenzio, rotto in maniera così plateale dal Sindaco Zaccheo, non può essere mantenuto; da qui la necessità di questa lettera aperta per manifestare il generale senso di disagio generato dalle richieste del sindaco Zaccheo, che noi da genitori possiamo comprendere quando riguardano le sue figliole, ma decisamente fuori luogo quando riguardano la richiesta di non dare “appalti a Fazzone”.
Al di là che appare incomprensibile il senso della richiesta, è del tutto inaccettabile e offensiva l’ipotesi di dare diverso peso specifico ai consensi apportati al PDL: i voti portati a nuoto da Ponza e Ventotene hanno lo stesso valore e la stessa determinazione di quelli che sono venuti da questo piccolo paese che sta ai confini del Lazio, il quale nella stragrande maggioranza del suo elettorato, oltre il 60%, ha votato PDL con consensi soprattutto a Fazzone e a Del Balzo, e creduto in quello che era originariamente il Suo progetto di governo della nostra regione.
Nel ribadire piena solidarietà al senatore Fazzone, che, per altro, è l’attuale coordinatore provinciale di Latina del PDL, per l’attacco del tutto gratuito e ingiustificato da parte del sindaco Zaccheo, attendiamo un Suo intervento che venga a sanare quello che riteniamo essere stata una grave offesa arrecata ai consensi che noi abbiamo apportati alla Sua persona, ma soprattutto L’attendiamo per una Sua visita al nostro paese
Cordialmente
Santi Cosma e Damiano 15 aprile 2010

I CONSIGLIERI COMUNALI DEL PDL

martedì 13 aprile 2010

PER IL GUSTO DI FARSI MALE

Il risultato di Minturno non meraviglia: non servono spiegazioni mirabolanti per arrivare ad un perché Sardelli è stato sconfitto.
Non serve invocare il desiderio di una nuova primavera, o della stanchezza dei cittadini minturnesi.
Non serve invocare l’eccellenza di un nuovo laboratorio politico, di una maggioranza eterogenea politicamente che va da rifondazione alla gioventù di destra, dai comunisti italiani all’udc, al pd.
Non serve giustificazione per comprendere che l’antisardellismo sia il collante di tutto e di tutti, o forse prima ancora sia stato antidelbalzismo il motore della coalizione proGalasso.
Non serve rincorrere dubbi di tradimenti o di giochi di fazioni.
Non serve invocare il desiderio di affrancamento nei “sudditi del ducato di Traetto”.
Il motivo di due sconfitte sta nell’asse FAZZONE-CUSANI-FORTE-GRAZIANO che ha fermamente volute queste due sconfitte e le ha cercate sin dalla costituzione delle liste per le elezioni regionali.
Da qui bisogna muovere, rimboccandosi le maniche e lavorare; iniziare, con metodo leghista, a riallacciare il rapporto con la gente, con i suoi bisogni e le sue necessità!
E’ questo che cerca la gente: una risposta concreta alle sue domande.
Le domande che facciamo a noi stessi ogni giorno, quelle più elementari: esigenze di sicurezza, stabilità, certezze di prospettive.
La gente sa anche bene che ,a volte, queste richieste è come chiedere la luna.
Ma l’errore che la classe politica ha fatto è stato quello che non ha messo neanche un po’ di buona volontà a dare delle risposte. E il suo ruolo imponeva che almeno un po’ di buona volontà lo mettesse!
Quasi diecimila consensi sono un ottimo patrimonio che non va disperso!
Romolo Del Balzo rappresenta ancora l’unica speranza che il PDL ha nel Sud Pontino!
Se viene meno anche lui, allora è meglio per tutti, ma prima ancora per il Sud Pontino e la sua gente che ci trasferiamo armi e bagagli tutti alla corte del nuovo re: Michele Forte!

domenica 11 aprile 2010

ELEZIONI REGIONALI, SUD PONTINO: COME FARSI DEL MALE NEL PDL

Indipendentemente da quale che sarà il risultato nel ballottaggio di Minturno, già si può dir che il PDL ha voltato pagina.
La mancata conferma del consigliere regionale Del Balzo rappresenta in sé la novità più importante nel panorama politico: i voti che sono mancati alla sua elezione sono stati davvero pochi, e sono mancati soprattutto nel suo bacino elettorale.
Sono mancati a Minturno, sono mancati a Santi Cosma e Damiano, sono mancati a Castelforte, sono mancati a Formia, e valutando la differenza in circa ottocento voti dall’ultimo dei non eletti, grande appare il rimpianto di non aver saputo cogliere questa possibilità, quella di eleggere un consigliere regionale che potesse essere punto di riferimento del PDL del Sud Pontino.
Le cause possono essere tante, e non vale nemmeno la pena ritornare su di esse: ma valutazioni vanno colte su quello che è il futuro degli schieramenti politici nel sud pontino.
Ancora una volta appare evidente la necessità di fare chiarezza sul ruolo dell’UDC: alleato a livello provinciale e regionale, costantemente avversario a livello locale.
Ma questo ruolo passa i secondo ordine rispetto a quello rivestito di personaggi che rivestono ruli istituzionali: primo fra tutto mi viene in mente a quello dell’assessore provinciale Stefanelli, che dapprima attacca la giunta Sardelli sui rifiuti all’indomani della creazione del movimento Progetto Futuro, poi partecipa attivamente attraverso la costituzione di una lista con lo stesso nome alla campagna le elettorale di Minturno. Ma la fiducia a Stefanelli non deriva anche dai voti di conglieri PDL, e primo tra tutti del suo capogruppo dr. Graziano.
Troppo spesso le istituzioni diventono il grimaldello per le campagne elettorali e per la propaganda: tutto questo è legittimo?
Nuove regole vanno cercate, nuove regole vanno rispettate: e queste sono le prime risposte che deve dare la classe dirigente del PDL, sia locale che provinciale.
Ma queste sono le risposte che deve dare il dr. Del Balzo, non a noi ma agli oltre novemila elettori che hanno posti la fiducia in lui.
Il percorso è lungo, le difficoltà sono senz’altro maggiori di quelle della campagna elettorale trascorsa; ma il tempo che abbiamo davanti e i consensi avuti sono tali da garantire più di una speranza per il futuro.
Buon lavoro.

mercoledì 24 marzo 2010

COSA CI MANCA DI ALDO MORO

di Pino Pisicchio

Trentadue anni fa la strage di via Fani e il rapimento di Moro. Politicamente sono passate ere geologiche che han portato via, con i tre decenni, anche un’Italia in bianco e nero, che faceva capolino dai tiggì istituzionali e dalle tribune politiche senza parolacce. Dal punto di vista del pensiero, però, dal punto di vista della qualità dei ragionamenti, dell’innovazione politica, la distanza delle ere geologiche è a vantaggio di quella stagione. Quante volte ci siamo domandati in questi anni che cosa avrebbe fatto Aldo Moro. Cosa avrebbe fatto una personalità come la sua, così poco incline all’esibizione e al compiacimento degli istinti più bassi del corpo elettorale, nell’era volgare che ci tocca vivere, con la politica ridotta ad un reality permanente, nutrito di gossip, di offese personali, di disarmante ignoranza, di sbirciatine dal buco della serratura? Qualche anno fa si era affermata una tendenza nelle discipline storiografiche a disegnare il possibile esito di un percorso diverso da quello che in realtà si era realizzato, tipo la geopolitica europea se Napoleone non avesse perso a Waterloo. Qualcosa più di un gioco intellettuale che, in realtà, valeva, appunto, come un esercizio intellettuale. Ciò che ha senso oggi, invece, ciò che va raccolto e rilanciato di quella stagione è il lavoro di un’intera generazione di uomini della politica, i costruttori della democrazia parlamentare italiana, che ci consegnarono un’Italia migliore di quella umiliata dal fascismo che loro avevano trovato. I nostri Padri difesero l’Italia e la possibilità di vivere in una democrazia moderna almeno in due grandi circostanze storiche. La prima fu la Resistenza, che riuscì a dare nobiltà e legittimazione democratica alla nostra classe dirigente, dopo la compromissione dei molti col fascismo. La seconda volta fu la resistenza al terrorismo degli anni ’70, quella lucida follia che fece vittime uomini della politica, intellettuali, magistrati, forze dell’ordine e sindacalisti. Moro fu l’emblema di questa seconda resistenza, interpretando quasi plasticamente, con quell’immagine sofferente dei giorni della lunga prigionia, la forza “mite”(un ossimoro che si attaglia particolarmente al suo lessico) della democrazia costituzionale. Quella Costituzione che aveva impegnato il giovane professore di Maglie, a soli ventinove anni, in un dibattito a tutto campo - oltre trecento interventi densi e spesso risolutivi in Assemblea Costituente-tra i padri della Patria. Ricordare Moro oggi, al di là del rito della memoria, significa allora mettere in faccia alla pallida politica di oggi la sua magnifica “inattualità”, il suo protagonismo all’interno di una generazione di giganti, di uomini che fecero grande e rispettato questo paese, disegnando regole del gioco della politica in cui la cultura, la passione e il senso di un destino collettivo rappresentavano la bussola. La differenza tra quella stagione e oggi? Moro, Calamandrei, Mortati hanno parlato di valore “pedagogico” della politica, di una politica, dunque, che deve insegnare la cittadinanza e la civiltà della partecipazione, indicando la strada alla gente. Oggi va di moda il marketing politico, secondo la formula del Ponzio Pilato: volete Gesù o Barabba? E se il sondaggio dice Barabba, state certi che Barabba sarà.

giovedì 18 febbraio 2010

caos e chiarimenti

Non a caso, per tutta la giornata di ieri, la paura ha attraversato anche i banchi di Montecitorio. Durante l'esame del decreto che riforma la Protezione civile, "peones" e "colonnelli" non hanno fatto altro che parlare della "vicenda Letta". Una scossa che si è infilata negli scranni del centrodestra per finire in quelli del centrosinistra. "È chiaro - è il monito di un autorevole ministro - che nessuno può dormire sonni tranquilli. Anche quelli dell'opposizione. Del resto, anche su di loro stanno facendo uscire lo stesso fango".

La tensione, però, sta mettendo a soqquadro soprattutto gli uffici della presidenza del consiglio. "Io comunque - ha ripetuto Letta al Cavaliere e a diversi esponenti dell'esecutivo - sono tranquillo. Non ho nulla di cui pentirmi. Abbiamo sempre agito rispettando la legge e facendo valere gli interessi del Paese. Ma...". Ecco, appunto esiste un "ma". Quello di essere stato "ingannato".

Dubbi che nelle ultime ore sono andati rafforzandosi. E che il capo del governo ha esposto ieri pomeriggio ai suoi fedelissimi in modo esplicito. "Come è possibile che in questi due anni i servizi segreti non ci abbiano avvisato di niente? Come è possibile che i Ros indaghino su di noi e non esca un solo fiato in un Paese in cui parlano tutti?". Se Letta non arriva a esprimere pubblicamente le stesse perplessità, lo fa dunque il premier.

Anche perché da maggio 2008 la delega a gestire i nostri 007 l'ha avuta proprio Letta.
Per Berlusconi, quindi, troppe coincidenze si sono concentrate nelle ultime settimane. L'incidente diplomatico di Bertolaso con gli Usa sugli aiuti ad Haiti, le manovre in corso su alcuni capisaldi della finanza e dell'industria italiana a cominciare da Generali, Mediobanca e Fiat. La linea editoriale del "Corriere" che per il premier rappresenta ancora il termometro dei cosiddetti "poteri forti". Tutti elementi che a Palazzo Cigi fanno sospettare la presenza di una "manina esterna" interessata a dettare le prossime scelte strategiche del "sistema Paese".

Tant'è che il presidente del consiglio ha chiesto a Letta cosa stia accadendo nei nostri servizi segreti e al ministro della Difesa, Ignazio La Russa, ha reclamato spiegazioni sul comportamento del Ros. Quest'ultimo, con i giornalisti, si è limitato a osservare che "i carabinieri fanno il loro dovere".
Parole che con ogni probabilità, La Russa ha evitato di pronunciare davanti al premier. Se non altro per non rientrare nell'elenco dei "sospettati". E già, perché anche il sottosegretario ha iniziato a lamentarsi della presenza in questa "partita" di giocatori "amici". Di ministri interessati a indebolirlo nella prospettiva della "successione berlusconiana".

In molti a Palazzo Chigi hanno ad esempio notato i silenzi di Giulio Tremonti, il gioco di sponda di Umberto Bossi e l'insistenza con cui Gianfranco Fini ha difeso il ruolo delle Camere. La "corsa" alla successione, però, innervosisce in primo luogo Berlusconi. "Deciderò io chi dovrà essere il mio erede. A tempo debito". E forse non è un caso che negli ultimi mesi proprio Letta abbia fatto sentire la sua voce in pubblico come non mai. In questa settimana per difendere se stesso e Bertolaso. Ma prima per non lasciare spazio ai "competitor".