domenica 20 marzo 2011

E' GUERRA.

Questa volta la guerra ce la siamo portata sull'uscio di casa!!!
Altro che azione effettuata su mandato dell'Onu, come vorrebbe far credere il nostro Beneamato Presidente della Repubblica, nonchè Presidente del Consiglio supremo di Guerra.
Dopo aver dimenticato il grido di libertà dei popoli ungherese del 56 e di quello cecoslovacco del 68, improvvisamente sente quello del popolo libico del 2011!!!
Intanto i nostri aerei fanno ricognizioni sulla Libia, le portaeree americane lanciano centinaia di missili sulla terra libica, i caccia francesi continuano a bombardare la terra di Libia!!!!
Almeno questa volta ci stanno risparmiando la storiella delle bombe intelligenti per giustificare un'azione dettata solo dal desiderio guerrafondaio e dalla smodata voglia di assurgere a sceriffi della libertà!!!
Una sorta di partito della libertà internazionale, cui da subito ha aderito il Nostro Presidente, ove fin troppo evidenti sono gli interessi economici che ruotano intorno alle fonti energetiche di cui è depositaria la Libia: nè potrebbe essere altrimenti.
Non si spiegherebbe, infatti, il silenzio assordante che circonda il supplizio dei cristiani in Sudan, o dei cristiani copti in Egitto. Nè da meno sono le difficoltà dei cristiani in Pakistan o dei maroniti in Libano.
Purtroppo le orecchie sono aperte solo alle grida di libertà del popolo libico!!!!!

domenica 13 marzo 2011

17 MARZO 2011: UNA FESTA E UN DUBBIO

Ad una settimana dal giorno di festa, l'Unità nazionale continua a sollecitare molti dubbi in uno come me, che è cresciuto all'insegna di una visione estremamente critica delle vicende che portarono all'unità nazionale.

Abituato da sempre a non dare niente per scontato e a diffidare di una interpretazione troppo eroica, e di stampo massonico, quale era stata l'era risorgimentale, mi sono imbattuto, senza volerlo, in un caso che può rappresentare l'emblema di quel periodo.

Il mio paese di origine è arrampicato sui monti dauni ai confini con la Campania e il Molise, e come tutti i borghi di quelle parti presenta un nucleo storico fatto di vicoletti, chiamate rampe, e largari, che chiamano piazze.

In una di queste strettoie, ancora oggi, si può vedere una croce scolpita su una pietra muraria, che le leggende dei nonni indicavano come il luogo ove furono fucilati sei briganti.

A metà degli anni settanta la curiosità di un sacerdote portò a scoprire che quei briganti erano solo qualche soldato sbandato dell'esercito borbonico, ed alcuni intellettuali locali, che, dopo un processo sommario, su ordine del comandante delle truppe garibaldine, furono passati per le armi: era l'autunno del 1860.

Quel comandante Garibaldino era tale Liborio Romano, omonimo del primo ministro borbonico, poi prefetto sabaudo di Napoli!

Quel comandante con la camicia Rossa fu poi processato per i delitti compiuti in tutta la Capitanata nella Fortezza del Carmine a Napoli, ma le carte processuali sono sempre state negate, o forse stanno nascoste in qualche armadio dell'archivio nazionale del garibaldini a Torino.

Basta cercare. Sicuramente si troveranno tanti episodi che costellarono quel periodo storico che di fatto dimostrano come quella che fu combattuta, di fatto, fu una guerra civile, in cui spesso la popolazione fu oggetto di repressione atroce e sanguinaria, basta ricordare i fatti di Pontelandolfo e Casalduni.

Abbiamo, però, imparato che a scrivere la storia sono sempre i vincitori, e che episodi, come quello narrato, era meglio porlo nella leggenda dei briganti fucilati, piuttosto che nell'ambito di una discutibile azione militare dei garibaldini: per la storiografia massonica era molto più facile, molto più comodo, molto più utile!

Permettemi ancora una domanda: ma se per i fatti della Resistenza, più recenti, si invoca una memoria condivisa, perchè mai, per accadimenti di 150 anni fa non si debba fare lo stesso?

Per chi vuo approfondire: P.Soccio:Unità e Brigantaggio, M.Marcantonio: Sangue e unità, C.Alianello: La conquista del Sud, http://www.ilfrizzo.it/Storia0993.htm

venerdì 4 marzo 2011

Le rivoluzioni franco-britanniche: guardando a quel che succede sulle sponde del Mediterraneo

Lino Bottaro
Roma/Balcani – “Il Nord-Africa è in fiamme, un’escalation di rivolte trasformatesi ben presto in guerre civili. Questa è la guerra del Mediterraneo, volta a tracciare le nuove sfere di influenza energetiche e sottrarre ogni controllo all’Italia“. Questo quanto dichiarato da Michele Altamura, direttore dell’Osservatorio Italiano, secondo il quale sono ormai evidenti le manipolazioni delle campagne di disinformazione e dei falsi giustizialismi, volti a creare le “false rivoluzioni colorate” e così delle nuove false capitali islamiche. Un grande ruolo è ora svolto da Internet e dai social-network che rivelano così un volto molto pericolo, ossia di strumento per la creazione di assembramenti e riunioni di protesta, così come per il coordinamento delle grandi masse. In gioco vi sono gli interessi dei giganti petroliferi degli antichi colonizzatori franco-britannici dell’Africa, che con Total, Chevron, Exxon, Shell e BP hanno tracciato i propri imperi energetici, decidendo ora la destituzione di quei Governi che loro stessi hanno contribuito a creare. L’Italia, con i suoi piccoli giganti, è ora costretta ad arretrare sempre di più, vedendosi quasi costretta a lasciare Tripoli e la lunga serie di cooperazioni economiche sottoscritte con Gheddafi, mentre da sola dovrà affrontare l’ondata dei rifugiati che premono sulle coste di Lampedusa.



Tali eventi non potranno non avere un’eco anche nei Balcani, dove i Governi dalla stabilità già precaria rischiano di essere bersaglio di manifestazioni incendiarie, viste le implicazioni etnico-religiose sempre in gioco. Si ingrossano così i forum e i blog che fomentano odio, malcontenti, scontri, utilizzando ogni banale pretesto per accendere le micce degli scontri. Dall’aumento dei prezzi al congelamento delle pensioni, dalla costruzione di una Chiesa all’espropriazione di un terreno. Le zone calde nell’area balcanica sono tante, primo tra tutti il Sangiaccato che rivendica l’autonomia e maggiori diritti per l’etnia bosniaco-musulmana, seguito poi dalla Bosnia Erzegovina, polveriera in cui vengono trafficate troppe armi e troppo esplosivo, ed infine la Macedonia che non ha ancora risolto l’equilibrio interno macedone-albanese. I governi, in questa guerra silenziosa, non hanno strumenti per monitorare queste nuove realtà, in cui vi sono programmi specializzati volti ad innescare conflitti inter-etnici ed interreligiosi, tutto questo gestito in maniera trasnazionale. “I media non rappresentano più la libertà di stampa, ma sono diventati solo ed esclusivamente dei cartelli di disinformazione e di provocazioni, sono delle società private con degli interessi economici. La nuova “rivoluzione internettiana” serve unicamente a cambiare le zone di influenza e a mettere al potere governi-fantoccio ingovernabili – afferma Altamura -.L’Italia resta a guardare impassibile questo scenario paradossale, in cui sia la Russia che l’America o l’Inghilterra, e persino l’ultimo paese sperduto, possono infliggere ovunque un qualsiasi colpo.
Mappa presenza delle compagnie energetiche

Acqua: Berlino dà l'esempio

Fonte: ilribelle.com
>di Andrea Bertaglio
Il referendum popolare di domenica scorsa si è chiuso con una vittoria che ha sfiorato l’unanimità: il 98,2 per cento dei cittadini vuole che la Berliner Wasserbetriebe sia gestita esclusivamente dal Comune

Anche a Berlino l’acqua torna pubblica. A deciderlo una consultazione popolare che ha chiesto ai cittadini della capitale tedesca, domenica 13 febbraio, di dire “sì” o “no” alla proposta di togliere la gestione dell’acqua ai privati.
Se in Italia si deve ancora votare sulla questione della privatizzazione dei servizi idrici, e se in una città come Parigi è già stato deciso da parecchio tempo di renderli nuovamente pubblici, oggi anche Berlino ha deciso che non si possono più associare speculazioni e profitti ad un bene di primaria importanza come l’acqua. I berlinesi hanno infatti votato “sì” al referendum per l’annullamento della privatizzazione parziale della società di gestione dei servizi idrici. Una vittoria a dir poco schiacciante: su oltre 678.000 elettori, il 98,2%, ha votato a favore di un’inversione di marcia, rivendicando anche una maggiore trasparenza dei contratti.
«Un bene essenziale come l’acqua non può essere fonte di profitto, vogliamo che torni in mano pubblica», ha dichiarato il portavoce del Comitato promotore, Thomas Rodek. E così sarà. Quello del referendum berlinese è stato un trionfo dei sì: ne servivano almeno 616.571, e ne sono arrivati 665.713. Andreas Fuchs, il cassiere del comitato referendario, commenta: «Ci speravo, ma non me l’aspettavo più, vista la scarsa affluenza in mattinata». Ed aggiunge: «È la prova che si può fare molto anche con pochi mezzi». Pochi mezzi davvero, dato che il comitato disponeva di soli 12 mila euro per organizzare tutto: soldi ottenuti interamente da donazioni (mentre gli organizzatori del fallito referendum sulla religione a scuola di due anni fa avevano raccolto centinaia di migliaia di euro).
La richiesta riguardava la pubblicazione integrale del contratto con cui nel 1999 la capitale tedesca, cercando di fare cassa, decise di vendere alle società Rwe e Veolia il 49,9% dell’azienda dei servizi idrici comunali, la Berliner Wasserbetriebe. Un contratto di cui solo nel novembre del 2010 i promotori del referendum hanno ottenuto la pubblicazione da parte del municipio berlinese: 700 pagine che illustrano il processo di privatizzazione parziale. Un dossier che mostra come la città abbia garantito alti margini di guadagno alle due imprese interessate, Rwe e Veolia. Che, nell’arco di dieci anni, hanno incassato più utili dell’intera città di Berlino: 1,3 miliardi contro 696 milioni. Ora l’obiettivo del comitato referendario resta quello di riportare completamente la Berliner Wasserbetriebe in mani pubbliche. Evitando possibilmente di replicare quanto successo nella vicina Potsdam, dove, nonostante la società di gestione dei servizi idrici sia stata rimunicipalizzata dieci anni fa, i prezzi hanno continuato a salire. E a far pagare oggi un metro cubo d’acqua più che a Berlino (5,82 euro).
In una domenica compresa tra il 15 aprile ed il 15 giugno gli italiani si potranno esprimere sul quesito riguardante l’abrogazione del decreto Ronchi, col quale nel 2009 è stato sancito che il servizio idrico non potrà più essere gestito da società pubbliche, ma solamente affidato a società che sono o totalmente private, o possedute da privati per almeno il 40%. Il secondo quesito riguarda invece la cancellazione del “Codice dell’ambiente”, una norma che prevede una quota di profitto sulla tariffa per il servizio idrico, la cosiddetta “remunerazione del capitale investito”.
Secondo i detrattori italiani dei referendum sull’acqua “privatizzare non può che migliorare la qualità dei servizi”. Per i sostenitori del referendum di Berlino, invece, in seguito alla privatizzazione parziale dei servizi idrici comunali i prezzi dell’acqua sono aumentati del 35%, collocandosi fra i più alti di qualsiasi altra città tedesca. A Berlino un metro cubo d’acqua costa 5,12 euro, a Colonia 3,26. Teniamolo ben presente, quando questa primavera ci recheremo a votare. Ce lo ricorda anche Dorothea Härlin, del comitato referendario berlinese, che sottolinea l’importanza internazionale del successo registrato nelle urne il 13 febbraio, ricordando che «non soltanto i berlinesi, ma i cittadini di tutto il mondo si battono per l’acqua».

giovedì 3 marzo 2011

NEOBORBONICI E LEGHISTI

G.RUSSO: MONDOPERAIO,FEBBRAIO 2011.
C’è la tendenza, da parte di scrittori che chiameremo “sudisti”, a propugnare l’ idea di un Sud che sarebbe stato ricco, felice e quasi alla pari con il Nord, se non fosse stato rapinato delle sue risorse finanziarie e non fossero stati invece concentrati nel Nord gli investimenti per le industrie e le infrastrutture. Due libri particolarmente vanno segnalati, anche per il successo di pubblico che hanno avuto: Terroni di Pino Aprile e Il sangue del Sud di Giordano Bruno Guerri.
Nel primo si presenta l’Unità d’Italia come una conquista dell’Italia meridionale da parte del Nord contrassegnata da una vera e propria guerra civile durante la quale si ebbero interventi militari con repressioni feroci nei confronti delle popolazioni contadine. Il libro inizia con una frase che ha suscitato grandi polemiche:” Io non sapevo che i piemontesi fecero al Sud quello che i nazisti fecero a Marzabotto. Ma tante volte, per anni. E cancellarono per sempremolti paesi, in operazioni ‘anti-terrorismo’ come imarines in Iraq.Non sapevo che, nelle rappresaglie, si concessero libertà di stupro sulle donne meridionali, come nei Balcani durante il conflitto etnico”. E continua su questo tono. Guerri invece, pur proclamandosi “unitario”, sostiene che sono state taciute pagine vergognose che riguardavano repressioni e stragi avvenute tra il 1860 e il 1870 al fine di reprimere il fenomeno del brigantaggio.
Ad Aprile ha replicato duramente Aldo Cazzullo, osservando che l’esercito non era da definire “piemontese” ma italiano, ed inoltre che è indegno paragonare quelle azioni contro il brigantaggio alle rappresaglie naziste.Ad entrambi ha replicatoAngelo Panebianco, in un articolo di fondo del Corriere della Sera del 4 novembre 2010, il quale, dopo avere osservato che si è fatta attenzione soprattutto al fenomeno del leghismo, sostiene che si è trascurato quello, più silenzioso, del “secessionismo culturale del Sud”. Si chiede infatti che cos’altro sia “la rappresentazione del Risorgimento come uno stupro di gruppo ai danni del Mezzogiorno da parte di unNord violento e rapace”.Osserva che le puntigliose rivalutazioni del Regno delle Due Sicilie sembrano dimostrare che gran parte delle classi colte meridionali siano convinte di due cose: che se non ci fosse stata “la colonizzazione del Nord il Sud sarebbe ora qualcosa di simile alla Svizzera e all’Olanda”, e che le classi dirigenti del Sud non hanno responsabilità dei mali in cui il Mezzogiorno si dibatte.
Sembra quasi che ci sia un blocco sociale che unisce le classi dirigenti che hannomale amministrato a quelle colte che reagiscono nel modo esemplificato nel libro di Aprile. Panebianco osserva che il secessionismo culturale del Sud ha il fiato corto, perché non può tradursi in un secessionismo politico, e che “l’unità del paese e la democrazia nel Mezzogiorno rischiano di diventare incompatibili”. E aggiunge che continuare a considerare la storia dell’Italia unita come frutto di una “odiosa colonizzazione” rappresenta una forma di autoassoluzione, da sempre la maledizione del Mezzogiorno.

I rischi del revisionismo
In verità il divario traNord e Sud, almomento dell’Unità, era evidentissimo sia nelle infrastrutture, sia soprattutto nel dato dell’analfabetismo, doppio rispetto al Nord. C’era stata una diminuzione di tale divario nella fase iniziale della Cassa del Mezzogiorno, ma in seguito si verificò un arresto in coincidenza con la fine dell’intervento straordinario. Attualmente, come scrivono nel saggio Ma il cielo è sempre più su Luca Bianchi e Giuseppe Provenzano, autorevoli studiosi della Svimez, il confronto tra il Mezzogiorno e le altre 208 aree europee che versano in condizioni di sottosviluppo dimostra che il nostro Sud va sempre più arretrando: è scivolato infatti in dieci anni, tra il 1995 e il 2005, quasi in fondo alla graduatoria.
Oltre al revisionismo, che attraverso la denuncia della repressione crudele del brigantaggio e la tesi che il Sud sia stato trattato come una colonia da educare e sfruttare presenta il Risorgimento e l’Unità d’Italia come un danno per ilMezzogiorno, ci sono da segnalare le tesi di studiosi come Giorgio Ruffolo che, nel suo libro Un Paese troppo lungo sostiene che per trovare una soluzione della “questionemeridionale” bisogna spezzare nel Sud il nodo tra la classe politica e la criminalità organizzata, e che ciò può avvenire solo creando un vero e proprio Stato federale del Mezzogiorno. Ruffolo sostiene che questa visione sarebbe ispirata alle idee di Dorso e Salvemini. Essi, per la verità, parlavano di “autonomia” e non di uno Stato federale, che se si attuasse la proposta di Ruffolo sancirebbe una divisione tra uno Stato del Nord e uno del Sud. Non entriamo nel merito di questa proposta, che ci sembra abbastanza avventurosa, ma la citiamo per indicare come il bilancio della questionemeridionale sia strettamente connesso alle riflessioni sui rischi che corre l’unità nazionale alla vigilia del suo centocinquantesimo anniversario.
Come si spiega che, dopo 150 anni, emerga con tanta violenza polemica questa rivendicazione revisionista, una vera e propria frattura culturale? Si rinnega l’eredità del meridionalismo classico e si rimprovera agli storici di aver considerato l’Unità come un progresso rispetto al passato, e di ritenere che sia stata comunque un vantaggio anche per i meridionali. Per chi affronta oggi il tema c’è da domandarsi come mai si è giunti a questo tipo di considerazioni. Le ragioni sono due: nella coscienza dell’opinione pubblica la questione meridionale ormai è sinonimo di “questione criminale”. In secondo luogo l’emigrazione di centinaia dimigliaia dimeridionali dopo la fine della seconda guerra mondiale ha creato nel Nord un assorbimento dei “cafoni”, mentre ormai l’invasione di extracomunitari è diventato il tema più importante.
La domanda “Esiste ancora una questione meridionale?” si pone in un momento in cui sembra che essa si riduca, per lo scandalo della “monnezza” a Napoli e le ramificazioni delle organizzazioni criminali al Nord e all’estero, a questione criminale. Non da oggi infatti questo rischio si è manifestato nell’opinione pubblica e nella stampa. Il sociologo Ilvo Diamanti ha scritto recentemente che è sbagliato sostenere che, dopo la fine dell’intervento straordinario sancita nel 1992, tutto sia rimasto immobile. Al contrario, nel Sud c’è stata in quegli anni una crescita economica e si è allargata la partecipazione civica, sicché ci “sono aree nel Sud che ormai per dinamismo e modello di sviluppo sono come alcune del Nord Est”. E conclude che la crisi di civismo, cioè di senso civico e delle istituzioni, colpisce pesantemente il Sud, ma il Nord non ne è immune: è una crisi che riguarda tutta l’Italia, è una questione nazionale.

Una questione nazionale
Infatti la questionemeridionale era considerata dai grandi studiosi meridionalisti una questione nazionale. Nel secondo dopoguerra la classe politica e gli intellettuali meridionali, con la partecipazione e l’intervento di esponenti dell’Italia del Nord (da Luigi Einaudi a Ezio Vanoni, da Alcide De Gasperi - promotore della Cassa delMezzogiorno - adAntonio Segni con la riforma agraria) erano convinti che occorresse risolvere la questione meridionale. Essi erano ispirati dalla grande tradizione del pensiero meridionalista di Fortunato, Salvemini, Dorso e Sturzo, la quale trovò i suoi continuatori in Pasquale Saraceno, in Francesco Compagna con la rivista Nord e Sud a Napoli, ed inManlio RossiDoria artefice della riforma agraria.Aquest’opera non fu estraneo il pensieromeridionalista della sinistra, quello degli eredi di Gramsci ma anche di Croce, come Giorgio Amendola, Giorgio Napolitano, Gerardo Chiaromonte, fondatori della rivista Cronache Meridionali. Ma fu soprattutto Francesco Compagna che dette un respiro culturale di livello europeo alla sua rivista, con collaboratori quali Rosario Romeo e Vittorio de Caprariis, e con il suo rapporto di studioso con i geografi francesi più avanzati. Egli collocò con grande anticipo il Mezzogiorno in un contesto europeo, come dimostra uno dei suoi testi classici, Mezzogiorno d’Europa, pubblicato nel marzo del 1958 e che oggi varrebbe la pena di rileggere.
Il sociologo Franco Cassano sostiene che il rilievo dato alla drammatica situazione del Napoletano fa correre il rischio di considerare il Sud irrecuperabile ai valori della modernità europea: “La Campania disperata e feroce di Saviano appare la conferma della inevitabile sconfitta di ogni speranza di cambiamento di fronte a un Sud irremovibile e destinato a perdersi”. E aggiunge che non tutto il Sud è dominato da caratteristiche negative: assumere Napoli quale rappresentazione tipica del Sud può creare gravi errori perché non si possono ricondurre al medesimo quadro la Puglia, la Lucania e una parte settentrionale della Calabria. Si tratta di situazioni differenti che dimostrano che è sbagliato restare fermi all’immagine di un Sud omogeneo tutto ai livelli più bassi. Egli sottolinea quella che pure a noi sembra essere l’unilateralità dell’opinione del sociologo americano Robert Putnam, secondo il quale il sottosviluppo del Mezzogiorno dipende dalla sua mancanza di senso civico rispetto al Nord. Si tratta di un giudizio parziale se si tiene presente per esempio il fenomeno del successo della Lega nel Nord. La tesi di Cassano è che la condizione del Mezzogiorno è il frutto della storica emarginazione dei paesi del Mediterraneo, e che quindi solo rilanciando una politica mediterranea di sviluppo si possono affrontare i nuovi aspetti della questione meridionale.
Si tratta di pensare al ruolo di un Mezzogiorno che possa avere un peso politico nella costruzione di una nuova regione dell’Europa allargata a sud. Il Mezzogiorno deve essere considerato nella comune appartenenza mediterranea, ma c’è da chiedersi come si possa dare un ruolo al Mezzogiorno nel Mediterraneo se non si risolve il problema del divario con il resto dell’Italia e dell’Europa e non si cerca di creare un Mezzogiorno moderno, capace di essere un modello. Il Sud non può essere riassunto in una definizione unica e perciò “abolire il mezzogiorno”, come propose anni fa l’economista Gianfranco Viesti, è poco credibile. Del resto lo stesso Viesti, anche se ha intitolato in modo così provocatorio il suo libro, ha indicato quale dovrebbe essere il ruolo delle classi dirigenti meridionali, sottolineando che il Sud dispone “ben più di quanto si pensi di risorse immateriali legate alla sue culture e alla ricchezza delle sue tradizioni”, e che la più grave sottoutilizzazione di risorse riguarda gli stessi meridionali e cioè il capitale umano, soprattutto quello dei giovani diplomati e laureati.

La risorsa dei cervelli
Uno degli errori della politica meridionalista è l’aver trascurato il fatto che nel Sud c’è la maggiore risorsa dell’Italia, quella dei cervelli, che però emigrano nel Nord come un tempo emigravano i braccianti. La disoccupazione intellettuale giovanile raggiunge in certe zone, come la Calabria, circa il 40%, e rappresenta il dissanguamento del Mezzogiorno. Secondo i dati Istat sulle migrazioni interne tra il 1993 e il 2002 l’emigrazione dal Sud verso il Nord, che si era pressoché annullata alla metà degli anni ’80, ha ripreso a crescere raggiungendo un livello vicino a quello degli anni ’50. E’di nuovo fuga dal Mezzogiorno, solo che è di una natura diversa da quella del dopoguerra: oggi si tratta di meridionali tra i venti e i trentacinque anni con elevati livelli d’istruzione. Le regioni del Mezzogiorno, osserva il sociologo Luciano Gallino, finanziano lo sviluppo del Nord in quanto l’istruzione dei giovani rappresenta un investimento di parecchi miliardi di euro all’anno che vengono trasferiti dal Sud al Nord. Occorrerebbe riflettere su questo fenomeno paradossale che i politici continuano a ignorare.
Oltre ai cervelli, stanno abbandonando il Sud anche lemedie imprese che si erano affermate per capacità d’innovazione: per fare gli esempi più noti, quelle di Barletta in Puglia, di Matera in Basilicata, diMarcianise e San Marco Evangelista in Campania, nel settore delle scarpe, delle calzature e del divano. Molte di esse si stanno trasferendo in Oriente e nell’Europa dell’Est. Le prospettive future del Mezzogiorno s’inquadrano nelle grandi trasformazioni economiche, sociali, scientifiche, tecnologiche che si stanno verificando nelmondo. Bisogna uscire da certi schemi: occorre realizzare anche psicologicamente la fine del mondo contadino e capire che ilMezzogiorno è afflitto oggi dai problemi di una società urbana e soffre di un urbanesimomalato. La disoccupazione giovanile e il lavoro nero diffusissimo nelMezzogiorno sono i temi da approfondire. Il vecchiomeridionalismo, che era stato impostato nel dopoguerra attraverso la Cassa del Mezzogiorno e l’intervento straordinario, partiva dal concetto di uno Stato forte, che distribuiva le risorse dal centro con meccanismi burocratici. I primi dieci, quindici anni della Cassa per il Mezzogiorno furono positivi, come scriveva nella rivista Nord e Sud Francesco Compagna.
La degenerazione della Cassa fu provocata da un sistema che non ha riguardato solo ilMezzogiorno. Uno degli errori che si commettono è infatti quello di isolare le vicende del Mezzogiorno dalla politica nazionale. Se nel Mezzogiorno sono successe cose negative è accaduto perchè il sistema politico, economico e sociale italiano si era corrotto e lo Stato non ha più svolto il ruolo per il quale era stato concepito l’intervento straordinario,ma si usavano le istituzioni per gli illeciti arricchimenti rivelati dalla crisi di Tangentopoli, un periodo della nostra storia nella quale anche il Mezzogiorno è stato profondamente coinvolto. I giovani meridionali che nel dopoguerra andavano ad arruolarsi nelle catene di montaggio della Fiat non sono più braccianti analfabeti, ma partecipano della culturamoderna e di tutte le opportunità offerte dalla rivoluzione tecnologica. Se si vuole guardare in modo costruttivo a un Sud così diverso dal passato bisogna però rimuovere l’ostacolo della vecchia mentalità, che continua a considerare il Mezzogiorno come qualcosa di “passivo” su cui intervenire dall’alto con gli stessimetodi e a volte con gli stessi protagonisti del passato.Ne è un esempio clamoroso l’esperienza fallimentare dell’agenzia “Sviluppo Italia”, nata nel 1999 per attrarre investimenti nel Mezzogiorno, e che ha gestito i fondi pubblici come nel passato.

Contadini e luigini
Oggi ci sono due linee che si confrontano: quella che vuole continuare nella vecchia strada che ha dimostrato di non essere più in grado di affrontare e risolvere i problemi dell’Italia meridionale; e quella di chi invece vuole imboccare strade nuove in corrispondenza dei nuovi bisogni e dei profondi mutamenti avvenuti in questi anni. Le classi dirigenti meridionali devono uscire da visioni localistiche o provinciali, e tornare a considerare la questione meridionale come un aspetto della questione italiana, che oggi non può non essere una questione europea. Uno dei maggiori studiosi del Mezzogiorno, lo storico Giuseppe Galasso, ha dimostrato che lo sviluppo economico dell’Italia negli ultimi trent’anni del ‘900 ha trasformato la questione meridionale da “agraria” - consistente nelle vicende della lotta per la terra e nella riforma agraria - in un problema che riguarda le città meridionali e le esigenze connesse alla creazione di servizi e all’uso delle tecnologie più avanzate, come quello della “banda larga”. A questo proposito, nell’introduzione al libro Una bussola per il Sud scrivevo: “Non esiste più una questione meridionale nei vecchi termini, non esistono più ‘contadini’ e ‘luigini’, non esistono più deficienze d’informazione, non esiste quindi più quel Mezzogiorno arretrato ancora erede delle miserie ottocentesche e delle conseguenze di un’unione del paese avvenuta con gravi squilibri. Esiste invece un Mezzogiorno in cui lo sviluppo disordinato, l’emigrazione e l’urbanesimo malato hanno creato molti problemi che possono essere risolti solo se s’incentivano le energie positive e soprattutto se nelle mutate condizioni i giovani possono trovare la loro possibilità di esprimersi”.
L’economista Nicola Rossi ha affermato che nel secondo dopoguerra ci fu una grande battaglia culturale, un’azione intellettuale che divenne una concreta azione politica e amministrativa, perché c’era l’idea che risolvere i problemi del Sud serviva non solo al Sud ma a tutto il paese. C’era dietro questa azione politica un’idea dell’Italia. Bisogna che economisti, sociologi, politici, intellettuali riprendano questa battaglia culturale e s’impegnino a riflettere sui nuovi aspetti della questione meridionale per capire anche perché dagli anni Ottanta in poi il divario, che a metà del Novecento era del 50%rispetto al Nord, adesso è del 55%. Quali sono le novità? Le città meridionali sono cresciute in maniera abnorme, con periferie dove non ci sono i vantaggi economici delle città delNord,ma dove imali della societàmoderne, criminalità e droga, possono svilupparsi senza controllo.Abbiamo quasi santificato i pentiti dimafia nella lotta alla criminalità.Nessuno si è posto però il problema di come aiutare le piccole emedie imprese del Sud a liberarsi dall’influenza della criminalità organizzata che si èmodernizzata, e di aiutarle a convertirsi alla legalità con un rinnovamento del sistema del credito, che dovrebbe essere uno dei punti di forza per una nuova politica per ilMezzogiorno. Su questo tema si è svolto in giugno a Napoli un convegno all’Istituto Italiano degli studi filosofici. L’economista Piero Barucci, con la relazioneMezzogiorno e intermediazione impropria, e il magistrato Pierluigi Vigna, con la relazione Il mercato sono loro, hanno affrontato il problema della cosiddetta “intermediazione impropria” rappresentata dall’economia illegale. E’ statamessa in rilievo la grande espansione dell’economia criminale e di quella illegale in genere, che si organizza con “le tecniche tipiche del capitalismo più aggressivo” e si sposta ormai verso orizzonti operativi e competitivi di carattere mondiale.

Investire nell’ordine pubblico
Se si fa un bilancio dell’industrializzazione delMezzogiorno ci si rende conto di aver trascurato lo sviluppo del turismo e dell’agricoltura, e nello stesso tempo di non aver sfruttato le prospettive di un ambiente naturale ancora fortunatamente intatto soprattutto nelle zone interne salvate dalla cementificazione. La pubblica amministrazione nelle Regioni, nelle Province e nei Comuni più che corrotta è spesso inefficiente. Come risanarla? Il federalismo è una formula dietro cui c’è tutto e il contrario di tutto. Un nuovo meridionalismo dovrebbe prendere posizioni distinte dalle teorie federaliste sostenute e vagheggiate dalla Lega di Bossi che possono portare ad una crisi istituzionale dannosa non solo per il Mezzogiorno. Per l’utilizzo dei finanziamenti europei occorre fornire gli strumenti ai Comuni meridionali affinché i progetti e le procedure siano efficaci. Ed è indispensabile rafforzare la presenza delle forze di polizia e dei carabinieri nelle zone della camorra, della mafia e della ndrangheta. Investire nell’ordine pubblico è più utile che investire nelle “grandi opere”, che restano spesso allo stato di progetti costosi come il caso del Ponte sullo stretto di Messina.
Gli altri aspetti della questionemeridionale riguardano sia lemoderne tecnologie da introdurre nei servizi e nelle comunicazione sia un piano per valorizzare il patrimonio deimonumenti storici e dei siti archeologici del Sud, ancora sottovalutato. Si veda ad esempio il caso dei crolli a Pompei, causati dalla mancanza di un’adeguata manutenzione e dalla carenza di fondi, oltre che da antiche piaghe come l’assenza di una corretta gestione: continuano infatti a prevalere la distorsione degli investimenti e gli abusi che riguardano la gestione, dai custodi, alle guide, ai servizi offerti ai turisti.
L’idea di un Sud arretrato e condannato irrimediabilmente a questa sua condizione è quindi sbagliata. Tutti vedono come il benessere si sia esteso, ma anche come sono rimasti i difetti storici della borghesia meridionale denunciati da Salvemini e da Dorso: familismo e mancanza di senso civico. Quanto alle Regioni meridionali, tranne pochissime eccezioni come la Basilicata, hanno un bilancio fallimentare e si sono trasformate in doppioni di quello Stato di cui dovevano essere un’alternativa. Se il federalismo della Lega dovesse essere attuato, il divario con il Nord potrebbe aggravarsi e arrestare il processo di rinnovamento della classe dirigente. Per ilMezzogiorno le esigenze principali sono sopratutto quelle dell’efficienza della pubblica amministrazione per avere la capacità di autogoverno e utilizzare gli strumenti giuridici e finanziari che lo collegano all’Europa. La classe politica italiana e soprattutto quellameridionale dovrebbe avere la consapevolezza che ilMezzogiorno si trova tra due alternative: o diventare l’avanguardia dell’Europa nel Mediterraneo, il ponte per lo sviluppo di regioni ancora arretrate come l’Andalusia, le zone greche e portoghesi e i paesi del Medio Oriente affacciati nel Mediterraneo; o essere assimilato a queste regioni e rimanere in quella situazione di sottosviluppo che faceva notare a un viaggiatore francese ai primi dell’Ottocento: “L’Europa finisce a Napoli e finisce male, la Calabria, la Sicilia e tutto il resto appartengono all’Africa”.
Oggi l’idea di un Sud come propagginemoderna dell’Europa nel Mediterraneo è più astratta che reale, ma è l’unica alla quale si dovrebbe guardare come obiettivo di una politica lungimirante. Ecco il grande compito che toccherebbe alle classi dirigenti meridionali se fossero coscienti di queste novità e di questa esigenza che profetizzò un grande uomo politico ed economista meridionale, Francesco Saverio Nitti, il quale intuì il nesso tra Mezzogiorno ed Europa. Del resto è chiaro che solo grazie al rapporto con l’Europa si può sfuggire alle tentazioni familistiche e clientelari che sopravvivono ancora insieme a nostalgie neoborboniche. Il destino delMezzogiorno è l’Europa, ma esige un’alleanza come quella che si verificò nel secondo dopoguerra tra le parti più avanzate e moderne della classe dirigente del Nord e di quella meridionale, quando si fondò la Cassa per il Mezzogiorno e si decise quell’intervento straordinario per il quale si batterono insieme il lombardo Pasquale Saraceno e il napoletano Francesco Compagna.

Il “Piano” del governo
Le classi dirigenti meridionali devono rendersi conto che non si tratta per il Sud di problemi strettamente economici, ma di una politica che riguarda il modello di Stato e il patto nazionale fra i cittadini. Solo se le classi dirigenti meridionali saranno capaci di migliorare l’amministrazione pubblica, di rendere efficaci le istituzioni, di creare un sistema bancario per ilMezzogiorno, potranno diventare protagoniste e approfittare delle grandi possibilità che offre l’Europa. Il governo Berlusconi aveva annunziato un “Piano nazionale per il Mezzogiorno” che individuava otto “grandi priorità”, di cui tre aree “strategiche di sviluppo” e cinque aree “strategiche di carattere orizzontale”. In particolare le tre priorità strategiche di sviluppo sono: infrastrutture, ambiente e beni pubblici; competenze ed istruzione; innovazione, ricerca e competitività. Le cinque priorità strategiche di carattere orizzontale riguardano: sicurezza e legalità; certezza dei diritti e delle regole; pubblica amministrazione più trasparente ed efficiente; Banca delMezzogiorno; sostegno mirato e veloce per le imprese, il lavoro e l’agricoltura. Il Piano rischia però di rispolverare strumenti che già nel passato hanno dimostrato di non esser funzionali agli scopi. Diceva Luigi Sturzo: “Il risorgimentomeridionale non è opera momentanea e di pochi anni o che venga fuori dalla semplice volontà di un governo, è opera di lunga, vasta, salda cooperazione nazionale e che come spinta, orientamento, convinzione, parta dagli stessi meridionali”. Ci vorrebbe un nuovo meridionalismo dotato di un progetto politico e di un programma economico e sociale al quale, come negli anni Cinquanta, aderiscano con entusiasmo anche le intelligenze e l’opinione pubblica del Nord, che sembrano invece sottoposte alle rivendicazioni antimeridionali della Lega di Bossi.